Un concetto un po’ stretto di mostra monografica, per un artista che più di tutti sapeva guardare. Cosa c’è e cosa manca nella mostra di Medardo Rosso alla GAM
L’umanità filiforme di Alberto Giacometti ha da poco lasciato le sale della Gam e il museo milanese rilancia sulla scultura. Questa volta però si gioca in casa, con la mostra dedicata a Medardo Rosso (1858 – 1927), una vita spesa tra Milano, dov’è sepolto al Monumentale, e Parigi. Tocca a Paola Zatti la curatela dell’esposizione, marchiata 24 ORE Cultura e realizzata in collaborazione con il museo Rosso di Barzio.
È tutta milanese la formazione di Medardo, nato a Torino e giunto in città da ragazzino nel 1870: qualche anno all’Accademia di Brera (prima che le intemperanze di una protesta gli valgano l’espulsione) e gli occhi bene aperti su quanto accade intorno, tra voga scapigliata e realismo lombardo di antica tradizione. Le prime opere sono bozzetti di umanità urbana, tra un Birichino e una Portinaia: volti caricati, in facile equilibrio tra realismo sociale e caricatura. Ogni creazione è replicata più volte, sperimentando le diverse rese dei materiali: bronzo, gesso, l’amata cera.
L’artista si trasferisce a Parigi, frequenta Degas, litiga con Rodin; predica una scultura che rinunci alla tridimensionalità plastica per inseguire la resa della vibrazione della luce sulle superfici: si guadagna sul campo la fortunata qualifica di impressionista. Da qui in avanti sarà una corsa alla rarefazione: le rughe d’espressione scavate nei bozzetti milanesi lasciano il posto a tratti accennati, a volti che paiono emergere appena dal filo dell’acqua. Madame X del 1896 (e il nome la dice lunga su quanto poco rimane un ritratto) strizza già l’occhio alle superfici levigate del Brancusi che verrà.
Questo, in brevissima, il percorso di Medardo Rosso. C’è tutto questo in mostra, ma manca molto altro.
Manca per esempio una riflessione approfondita sugli ultimi vent’anni dell’artista. Del 1906 è l’ultima scultura originale: per i vent’anni successivi si occuperà principalmente di fotografare le proprie creazioni, modificando tagli e luci, sperimentando sotto e sovresposizioni, lavorando a colpi di forbici sulle fotografie in abbozzi di collages. Prima che chiunque nominasse Man Ray, il collage o qualsiasi altra cosa in quell’aria…
Manca, poi, un po’ di attenzione espositiva: le sale neoclassiche di Villa Reale avrebbero richiesto un pensiero in più. E ancora: le fotografie scattate dall’artista sono presenti in buon numero ma stanno relegate in un corridoio come un’inerte appendice al corpo della mostra. Perché non esporle accanto alle sculture che riproducono?
Manca, ed è la mancanza più grave, qualsiasi cosa che non sia Medardo Rosso. Non una sola opera di confronto per provare a raccontare gli incroci con la Scapigliatura e gli impressionisti, con la statuaria rinascimentale o il Futurismo, con i tanti artisti incontrati lungo il percorso. Sembra mancare la consapevolezza, come diceva Roberto Longhi, che «l’opera non sta mai da sola, è sempre un rapporto. Per cominciare: almeno un rapporto con un’altra opera d’arte».
“Medardo Rosso. La luce e la materia”, Galleria d’arte moderna, fino al 30 maggio 2015
Foto: Medardo Rosso, Henri Rouart, 1889, Barzio, Museo Rosso. © Milano, Fondazione BEIC; Civico Archivio Fotografico