“La Linea Insubrica” al Kunst Meran di Merano è la mostra d’esordio di The Invention of Europe. A tricontinental narrative (2024-2027), programma curatoriale triennale che riflette criticamente sull’idea monolitica d’Europa. L’esposizione raduna un gruppo di artiste e artisti legati al continente africano attorno all’immagine speculativa della “linea Insubrica”, geo-punto che attraversa la città di Merano e cucitura nella superficie terrestre emersa a seguito della collisione tra la placca tettonica europea e quella africana. La narrazione dell’identità e purezza europea è decostruita a partire da una realtà geologica: l’immagine orografica della linea che materializza la complessità di una storia iniziata 65 milioni di anni fa.
Questo articolo lo inizierei segnando il tempo.
Il tempo dello stare per rintracciare, trovare le tracce.
Un racconto complesso, di una storia complicata.
Il tempo di quest’articolo è un tempo diverso, uno spazio diverso, un linguaggio diverso.
Mi fa sorridere la somiglianza tra linguaggio e lignaggio: discendere da una famiglia illustre: ciò che abbiamo fatto credere. Dicotomia della provenienza.
“A causa della struttura colonizzatrice è emerso un sistema dicotomizzante e si sono contemporaneamente sviluppate molte delle opposizioni paradigmatiche: tradizionale/moderno; orale/scritto e stampato; comunità agricole e consuetudinarie/economie altamente produttive”. (Mudimbe, 2017)
Dicotomie complicate e non complesse.
Complicato ha a che fare con le pieghe.
Complesso ha a che fare con i nodi, le tessiture.
Complesso ha anche a che fare con la psicologia.
Le pieghe, le linee, la linea insubrica.
La terra ha dato il primo segnale
Lo scontro arriva prima di noi
Degli scontri tettonici che già sapevano come sarebbe andata a finire: un destino segnato dalla terra: incredibile rivelazione.
Noi abbiamo creato tutto il resto.
Se proviamo a ragionare con le parole, linea deriva da lino, un tessuto, che è intrecciato con dei fili, non complicato ma complesso, nodi.
Del senso di riportare la complessità in auge, della resistenza all’appiattimento e all’invenzione, appunto, di storie che non esistono.
Della possibilità di rintracciare le complessità in certe quotidianità (le invenzioni per eccellenza).
Narrazioni trasformate, narrazioni celate:
i segni della consuetudine passano attraverso gesti semplici: bere una tazza di tè (carcadè), riempire una tazzina con il caffè, annaffiare le piante in balcone. Gesti innocui, all’apparenza. Fino al momento in cui, qui, si svela ciò che è celato. Il momento in cui si stagliano le complicazioni della storia. Il momento in cui si realizza che un tessuto non è più un semplice tessuto, in cui un chicco di riso è un ricordo della propria terra, che si porta nascosto fra i capelli. Lo svelamento originato dalle opere di Binta Diaw, Francis Offman, Liliana Angulo Cortés, Kapwani Kiwanga.
Tutte relazioni di potere, tutte evidenze di pieghe, su pieghe, su pieghe.
Del senso di affibbiare letteralmente allacciare qualcosa con una fibbia.
Del nostro “decoro” del loro “indecoroso”.
Di dicotomie che non creano complessità, ma complicanza.
Dell’ineluttabilità che questa storia sia stata raccontata solo in questo modo.
Delle storie che sono state ridotte ad alternative,
storie vere falsificate. Le visibilità e invisibilità, le censure: Alessandra Ferrini.
Delle possibilità reali che abbiamo a disposizione.
Dei linguaggi che possiamo usare.
Delle parole che possiamo inventare: vocabolari mai visti prima. Trasporto ideale dell’opera dei The School of Mutants: siedi con noi.
Della necessità di utilizzare degli occhi ripuliti.
Dell’impossibilità di usare una forma prestabilita.
Il tempo è quello che ci vuole a realizzare di aver reso un racconto complesso, una storia complicata.
Di cosa siamo impregnati e di cosa impregniamo? Cosa abbiamo partorito?
Cosa abbiamo fatto “proprio” cioè cosa abbiamo reso privato e nostro?
Continuiamo a raccontarci delle storie inesatte, bidimensionali, ignorando le sfaccettature che perdiamo in questa operazione, abbiamo ancora bisogno di comprendere come è avvenuto tutto ciò. Continuiamo a complicare e non complessificare, continuiamo a dicotomizzare anziché aggrovigliare.
Ciò di cui ci siamo appropriati e ciò che abbiamo affibbiato.
Di tutti i modi che potevano essere scelti per parlare di questa mostra, questo è quello che mi convince di più: sono onesta.
Rumori assordanti che atterriscono. I suoni di Abdessamad El Montassir.
Perché dobbiamo vedere le cose.
Perché continuiamo ad avere la possibilità di discernere e non possiamo ancora ignorarla.
Dovremmo seguire i suggerimenti delle piante e dei semi, e fare lunghi viaggi, ricordandoci da dove proveniamo e cosa abbiamo commesso.
È uno slegamento.
Non sto cercando di raccontarvi niente, è evidente.
Sento i rintocchi di un orologio: l’orologio di una storia che sta su una linea, che da mezzogiorno poi batte l’una, le due, le tre, le quattro, le cinque, le sei, le sette, le otto, le nove, le dieci, le undici, mezzanotte. Avete l’immagine dell’orologio-linea? Bene, curvatela, piegatela, le otto diventano le tre, le undici le sei, le quattro mezzanotte, ecco dove sta la storia non detta, nelle piegature, negli spazi intermedi, nelle fratture in cui si insinua quello che credevamo non sarebbe stato mai detto.
La eco, i suoni, il battere di un tocco temporale difforme.
Se avessi un foglio disegnerei un orologio illeggibile.
La parola poesia deriva da “fare”. Fare.
Quello che faccio è annodare e slegare, non piegare e spiegare.
In copertina: Abdessamad El Montassir, Galb’Echaouf, 2022, Video still, Courtesy ADAGP, Paris