Certo, la McGranitt di Harry Potter e la Lady Violet indimenticabile di Downton Abbey. Ma molto altro ha fatto – guadagnandosi anche due Oscar – e molto lascia a noi che l’amiamo Maggie Smith. Come pochi altri ha saputo unire camp, autorialità e pop con un’etica del lavoro che tutto nobilita
Gentile Miss, o è meglio virare sul Dame?, Maggie Smith,
c’era una vecchia canzone di una signora che si chiama Fiorella Mannoia che dice: il tempo non torna più. Forse è vero che siamo fatti di carne e che spesso siamo invitati a morire, e pazienza. Che senso hanno avuto due Oscar, svariati altri premi e il cuore degli spettatori, se poi sei un corpo senza vita? Perché preoccuparsi di lasciare un’eredità simbolica, da soldi del Monopoli, a decine e decine di sconosciuti che magari già da domani piangono un altro morto famoso? Non esiste una risposta.
A lei, Miss Smith – col cognome anglofono più banale del mondo – ho visto fare alcune delle cose più incredibili mai viste sullo schermo. Forse perché il suo è stato uno dei primi volti che in effetti ho osservato, sullo schermo; ma ci sarà qualcosa di più efficace della visione ombelicale d’una persona qualunque, sebbene oggi si proceda solo per visioni ombelicali.
Ecco, lei, Maggie Smith, ha regalato al cinema delle esistenze – perché no, con lei non ci si limitava ai personaggi – che hanno avuto del prodigioso.
Per comprendere che attrice fosse, su quasi novanta tra film e prodotti tv, basterebbe recuperare giusto California Suite (1978), diretto da Herbert Ross su script di Neil Simon. Lei interpreta un’attrice britannica che vola a Los Angeles per partecipare alla notte degli Oscar – è candidata ma sarà snobbata a favore di un’interprete più giovane. A lei in realtà non frega una mazza: ha più a cuore che il bisessuale marito, Michael Caine, conservi ancora qualche scampolo di pensiero per lei. Dopo aver perso la statuetta e vomitato su di lui battute che nessuno sceneggiatore odierno si sognerebbe mai di scrivere, i due trovano una sorta di quadra. Lui la bacia, lei sbadiglia e sussurra: Non è per il bacio, è per la mia vita. È un momento da manuale di recitazione, in cui una sceneggiatura sapiente (e ti credo, Neil Simon, mica un post-adolescente che didascalizza i finti drammi del suo quartiere) incontra il genio di una interprete eccezionale. C’è tutto, non basterebbe altro, dentro un film che, a eccezione dell’episodio Caine-Smith, è tranquillamente dimenticabile (pure considerati gli altri talenti in gioco, da Jane Fonda a Walter Matthau, da Elaine May a Richard Pryor).
E forse è dimenticabile pure un gigante come Caine, totalmente a servizio del furore della partner, furore che le è valso il secondo Oscar – siccome la vita è autrice e metatestuale, ribadiamo che il suo personaggio nel film l’Oscar lo perde miseramente.
Gentile signora Smith, col cognome più ordinario che ci sia, lei ha fatto delle cose che altri si sognerebbero. Ha lavorato coi più grandi riuscendo a mangiarsi ogni inquadratura possibile, con un’etica del lavoro incredibile: pure nel film più scemo, è stata in grado di rendersi, come dicono oggi in assenza di aggettivi più calzanti, iconica.
Memore della lezione di veterane come Wendy Hiller e Margaret Rutherford, ha ricreato l’archetipo della bisbetica dama british adeguandolo ai nuovi tempi e alle nuove sensibilità. O meglio: trovandole lei, le nuove sensibilità. Sì, è stata la vecchia stronza inglese caratterista in tantissimi film americani, ma è stata pure in grado di rendersi protagonista assoluta, quando era previsto da copione e anche in caso contrario.
Non se n’è persa una, Maggie: dall’Old Vic all’Otello con Olivier fino all’insegnante manipolatrice dalle simpatie fasciste in La strana voglia di Jean, per cui vinse l’Oscar come miglior attrice, la prima delle due statuette. Anche qui, siamo oltre il “che brava interprete”: lei divora letteralmente i frame, con un magnetismo che avrebbe avuto pochi eguali tra i colleghi di quel periodo.
Gentile Smith, sei una bomba: come i tuoi occhi in Camera con Vista, che nascondono tutto il mondo trattenuto della cugina Charlotte, e che neutralizzano Day-Lewis, Bonham Carter e chiunque altro. Sei stata pure in Invito a cena con delitto, uno dei titoli più divertenti di sempre, altro che true crime.
Come la grande abilità di rendere pazzeschi anche i film più elementari senza mai sdrucciolare nella sciatteria: Miss Smith, tu sei rimasta fedele al dispositivo cinema sia come gelida reverenda madre in Sister Act (1 e 2) sia diretta da maestri come Robert Altman (qualcuno può ricordare ogni sette ore quanto fosse straordinaria in Gosford Park?). A differenza di altri colleghi, che riesci a stanare subito quando recitano per l’assegno e non per il sacro fuoco, tu hai unito gusto camp, autorialità, pop.
Un’artigiana sempre in corsa, che ha saputo impreziosire l’opera di registi affermati – come Alan J. Pakula o George Cukor – scelta come energica protagonista in In viaggio con la zia – e che si è imposta come icona di saggezza beffarda e witty per i millennials: dalla severa ma comprensiva professoressa McGranitt della saga di Harry Potter alla nobilissima Lady Violet di Downton Abbey (“Cos’è un weekend?”), Smith è stata un volto rassicurante all’interno di narrazioni popolari che macinavano centinaia di milioni di dollari, una che sta coi giusti ma facendoglielo pesare, altrimenti che bello c’è. Oggi millennials e genzers, che spesso non reputano significativo nulla che sia antecedente alla loro nascita, la ricordano soprattutto per queste due operazioni, e pazienza – ma che spreco non risalire a tutto il resto.
In mezzo, avanti e indietro tra i rulli, ci sono stati il Riccardo III di Loncraine con Ian McKellen, la Wendy invecchiata di Hook di Spielberg, cult assoluti come Scontro di titani in cui interpreta la capricciosa e iraconda Teti, fumettoni di successo come ben due adattamenti da Poirot (Delitto sotto il sole e Assassinio sul Nilo, in cui nonostante il portamento aristocratico fa da badante a Bette Davis), diverse cazzate, espressioni sardoniche e un’esperienza filmica che in tante si sognano, per il semplice motivo che un certo modo di essere inglese sullo schermo lo ha (re)inventato lei. Prima di Judi Dench, prima (figuriamoci) di Olivia Colman.
Memorabile serpente nel Tè con Mussolini di Franco Zeffirelli, lei divide l’inquadratura con una star come Cher e con le sodali Judi Dench e Joan Plowright, ma le simpatie e le tensioni del pubblico sono tutte rivolte a lei. Anche quando, prima moglie bene rodata ne Il club delle prime mogli, inganna Sarah Jessica Parker a un’asta per convincerla a sganciare tanti quattrini per un piatto: “Jackie Onassis ne aveva uno uguale”.
Maggie Smith, te ne vai oggi a 89 anni, ma potrebbero essere 120 come 7000, cambierebbe poco, con il tuo cognome così banale che però è riuscito a declinare decine di personaggi, di umanità così incredibili. Dicono che forse il cinema morirà e chissà se è vero; di certo oggi perde una delle sue colonne più robuste. E pazienza se a un certo punto si muore, e se il tempo non torna più.