Il crepuscolo viennese di Strauss ispira Petrenko che seduce con un “Cavaliere della Rosa” da antologia

In Musica, Weekend

Non ha un gesto che cattura eppure il direttore d’orchestra russo-austriaco (in questi giorni alla Scala di Milano) riesce a far suonare le corde dell’emozione dando alla partitura dinamiche calibratissime che controlla con precisione ed eleganza. La regia di Kupfer (1935-2019) ripresa da Derek Gimpel racconta con efficacia il declino di una società chiusa in una gabbia di convenzioni senza più senso

Eravamo in pensiero. Non sapevamo se e quando. Ma alla fine siamo stati liberati dall’incertezza: l’Intelligenza Artificiale, con la maiuscola, è pronta a scendere in buca d’orchestra, a strappare di mano la bacchetta a quel vecchio arnese del direttore, a staccare tempi, dare attacchi, guidare voci e a dimostrare anche in musica l’inutilità dell‘essere umano.

Ma allora com’è che alla Scala in questi giorni (dal 12 al 29 ottobre) il pubblico impazzisce e sente che il “genio” di Der Rosenkavalier, opera-emblema del miglior Richard Strauss, è chi dirige l’orchestra? In attesa che la IA o AI si prenda quel che merita, godiamoci come bambini il piacere che un vivente di nome Kirill Petrenko, classe 1972, musicista prodigioso, per evidente stupidità scelto come direttore musicale da una delle più grandi orchestre del mondo, i Berliner Philharmoniker, sia l’eroe di una delle produzioni più emozionanti della stagione 2023-2024. Fra 45 giorni se ne apre una nuova, stagione, inizio di qualcosa che dovrebbe essere una svolta. Ma questo è un altro discorso.

Per chi si accontenta delle apparenze, Kirill Petrenko non ha un appeal che cattura né un gesto che seduce. Dirige asciutto, quasi geometrico, prevalentemente a due mani. Questo significa una cosa, ch’è nell’ordine vero del far musica: gran parte del messaggio che trasmette all’orchestra è in ciò che non si vede, nella concertazione, nel lavoro che esce dalle prove, nelle ore e nei giorni in cui, a contatto fisico e mentale con gli orchestrali, spiega le sue scelte, le motiva, le dimostra (deve dimostrarle) fondate su una conoscenza della partitura molto speciale, che gli dà il diritto di stare sul podio e non seduto a un leggìo. 

Devono essere stati giorni che hanno lasciato un segno sull’orchestra, perché una risposta così alta i musicisti della Scala la riservano solo a chi vale molto, moltissimo, soprattutto se, come Petrenko, lo incontrano per la prima volta. Il lavoro sulle sezioni dev’essere qualcosa di cui a lungo si ricorderanno, soprattutto gli ottoni, che in Strauss sono sempre decisivi quando il tessuto e i colori si fanno pesanti, cioè spesso, anche in un’opera “mozartiana” come Il cavaliere della rosa.

Petrenko è un direttore elettivamente sinfonico, che legge l’orchestra come una Tac, riconosce d’istinto, nella scrittura densa di Richard Strauss, di quale materia sia fatto un impasto sonoro, decifra ogni dettaglio per renderlo evidente, ma in funzione dell’espressione. Petrenko mette già in chiaro quale forza sia capace di imprimere all’orchestra di Der Rosenkavalier nell’introduzione all’atto primo, ma è nello strumentale a sipario chiuso dell’atto terzo che la sua direzione lascia sbalorditi, nello spettacolo di calibratissime dinamiche che esibisce quando controlla con precisione ed eleganza due orchestre, in buca e fuori scena (che, parlando di Strauss, non è tanto piccola). 

Da “sinfonico”, Petrenko tende un arco perfetto lungo i tre atti e le più di tre ore di musica, fino a scatenare virtuosisticamente, nella farsa finale, l’intreccio di fili, personaggi, situazioni che lo Strauss operista si riserva come esibizione personale. Lì, nello svelamento dell’Amore, nel duetto da lacrime di Sofia e Ottaviano, nella toccante saggezza della Marescialla che rientra nella vita che le resta, Petrenko dimostra di saper toccare la corda dell’emozione. Perché è un musicista completo.

Lo spettacolo in scena alla Scala non è nuovo, nemmeno per la Scala, dov’è arrivato (da Salisburgo) nel 2016, allora diretto da Zubin Mehta. Spettacolo che piace e convince ancora perché Harry Kupfer (1935-2019) nell’ambientarlo in grandi scene sghembe (di Hans Schavernoch), su fondali in bianco nero e grigio, nel vestirlo di abiti più che di costumi (di Yan Tax) sottraeva la commedia di Hugo von Hofmannsthal, neo-settecentesca, neo-mozartiana, neo-molte-cose, alle convenzioni che hanno messo a sedere quest’opera nel passato nata nel 1909 con sguardo già post-moderno. Nelle architetture imperiali deformate, Kupfer leggeva in fondo quel che c’è in Hofmannsthal e Strauss, che per tre atti insistono a far nominare Vienna, luogo fisico e simbolico di un crepuscolo esistenziale che pervade tutti, qualunque cosa facciano e pensino. 

Der Rosenkavalier è anche opera di cose concrete come la scalata sociale dei ricchi borghesi (il vecchio Herr von Faninal e sua figlia Sophie) e lo speculare declino economico, non solo morale, di una nobiltà senza più un senso e presto senza un Imperatore (l’orrido Barone Ochs di Lerchenau). Tutti agiscono chiusi in una gabbia di convenzioni sociali che sono la città, seppure ammantata di leggenda come Vienna. Dunque ha un senso non decorativo che quando i valori della vita riemergono dalle falsità mondane, i due giovani (Sophie e Octavian) e i due vecchi (Faninal e la Marescialla, ora insieme nella lussuosa decappottabile bianca) cantino la verità dell’amore immersi nella natura, sullo sfondo di filari di alberi spogli. 

La regia, ripresa da Derek Gimpel, scorre veloce – sì, tre ore veloci – con una recitazione sciolta, non retorica, muovendo situazioni che, soprattutto nel finale della farsa in osteria, riescono a strappare un sorriso. 

In questo congegno ancora a regime, tutti cantano e recitano ben dentro i loro ruoli, sui quali domina la Marescialla di Krassimira Stoyanova, voce che affascina, appeal che seduce. La segue da vicino, in chiave opposta, il Barone Ochs di Günther Groissböck, roccioso, abile nel reggere la parte più pesante e chiassosa dell’opera. Ha grazia e ironia l’Octavian en travesti di Kate Lindsey; Sabine Devielhe combina ai sovracuti i ripiegamenti nella candida fragilità di Sophie. Ma tutte le più di venti parti di Der Rosenkavalier sono coperte con proprietà, con il medaglione di Piero Pretti nel ruolo iconico del Cantante Italiano. Se Il Cavaliere della Rosa è un inno a quel che conta nella vita, lo spettacolo della Scala lo canta chiaro, grazie a Petrenko.

Foto Brescia e Amisano ©Teatro alla Scala

Teatro alla Scala di Milano. Richard Strauss Der Rosenkavalier. Dirige Kirill Petrenko, regia di Harry Kupfer, ripresa da Derek Gimpel (Repliche: 19, 22, 25, 29 ottobre)

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