Parlami come la pioggia per salvare le solitudini

In Teatro

Torna al Teatro Franco Parenti fino al 10 novembre uno degli spettacoli più apprezzati della scorsa stagione. Una emozionante collazione di atti unici di Tennessee Williams nelle Interpretazioni eccellenti di Picello e Sferrazza Papa, che è in scena in contemporanea anche con Lo zoo di vetro

In equilibrio su memorie del passato: foto ingiallite, romanzi vissuti, strappi e ritagli e oggetti che ormai suonano antiquariato, come le audiocassette o i vhs, fino agli ormai risorgenti dischi in vinile. Così, una bambina, nel fondo del Mississipi arido e vuoto come lo immaginiamo, cammina sui binari del treno e di una vita che le ha lasciato addosso una eleganza ormai diventata memoria a sua volta, di paillettes lacere e sporche. Si apre sulla duplicità di questa immagine che specchia reale e scenico – nell’evocativa e originale regia del giovane ma già riconosciuto Andrea Piazza, che di tutti questi frammenti di vita fa multiforme strumento di scena – “Parlami come la pioggia”, al ritorno al Teatro Franco Parenti fino al 10 novembre dopo un primo anno ad inanellare sold out. E non si fa fatica ad immaginare perchè, mentre sul palcoscenico scorrono, come il filo dei binari, una dopo l’altra cinque storie di solitudini che si fanno una, quella del loro autore, che si moltiplica e le contiene tutte. Cinque, come gli atti unici di Tennessee Wiliams che – portandole in scena – svolge e fissa, consegnandoli all’eternità delle storie, altrettante immagini di incontri, lungo la sua vita e i suoi viaggi “con il grande manicomio che è l’America”.

E forse anche la vita in sè, anche se qui si sente forte il sapore di quegli Stati Uniti archetipici, misterici e terrosi che vanno da Faulkner a Haruf. Sono figure abbandonate a una distanza tragica e a suo modo tenera, e al contempo senza tempo, come bambini che vogliono far sognare l’aquilone e bambine consegnate alla morte mentre si sognano Greta Garbo e sono sole come Margherita Gautier piegata dalla tisi. O meglio, Marie Duplessis, come la donna che le ha dato origine, se è vero che alla verità più che al lirismo si vuole appigliare, anche qui, il drammaturgo statunitense. E a tutti i sentimenti che restano (depositati a terra come vecchi ricordi ormai inutili, raccolti tutt’al più da qualche curioso o sensibile rigattiere) quando si guarda oltre le luci della scena, fuori dal cono di luce: nel silenzio di una bambina col solo orizzonte di ua linea ferroviaria che vuole somigliare a sua sorella e regalarsi al primo ferroviere, come nel cuore invisibile di una grande città in cui un uomo e una donna di ritorno di una festa si ritrovano imprigionati nella “boccia per pesci” della loro vita, piuttosto una gabbia di animali selvaggi pronti a scattare a colpi di accuse ciniche e sardoniche.

Lame che compongono anche in scena, un pezzo alla volta, il muro che li divide, mentre il pubblico – schierato come attorno al ring, più che in un abbraccio – può vedere soltanto un frammento di realtà, e al resto deve supplire – come fa il teatro – immaginando  Lo fa grazie alle donne di travolgente intensità di Valentina Picello e agli uomini mutaforma – scene e costumi sono di Alice Vanini Tomola – di Francesco Sferrazza Papa che fanno cadere le maschere di felicità artificiali per scoprire la disperazione della condanna dei poveri come dei borghesi prigionieri dell’ “opulenza della decadenza” di un tempo – così vicino, al netto di calendari e latitudini – in cui ci si continua a sentir ripetere che “la vita ti dà quel che riesci a ottenere”. E chi – come Moony, sognatore fallito – in un cambio d’abito si trasforma in carceriere di nuove forme di condanna. Come Eloi, che vuole purificare con il fuoco l’orrore dell’immagine di un amore che, disgustandolo, forse segretamente lo attrae come il miraggio di un’alterità che non sa immaginare.

Restano soltanto due giovani perduti, condannati a vicenda a restare legati, a non poter far altro che immaginarla, una vita come una stanza fresca, piena del mormorio della pioggia. Una solitudine che sia pace, anzichè abbandono, in compagnia di voci non più rabbiose e sconfitte ma liriche, come quella che punteggia e traccia i contorni di queste storie nelle didascalie a voce alta: le voci degli scrittori. Di chi avrebbe, ha, potuto fare di loro fare delle loro poche cose un “museo delle solitudini raccolte”  perchè ciascuno potesse, come l’autore, riconoscere la propria, e delle vite salvate dal racconto.

foto di Luca del Pia

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