Il nomadismo sonoro dei Khruangbin

In Musica

 La band texana l’11 novembre sarà all’Alcatraz di Milano con il suo bagaglio di groove funk, soul, etno, rock psichedelico, desert blues. Una festa per le orecchie e i sensi

Dopo quattro anni atterrano di nuovo a Milano con il loro “motore volante” i Khruangbin.
Lunedì 11 novembre la band texana si esibirà all’Alcatraz per l’unica tappa italiana del loro tour mondiale. Focus dell’appuntamento sarà A La Sala, l’album che segna il loro ritorno alle origini, senza rinunciare al gusto delle contaminazioni.

Il disco, uscito la scorsa primavera, rispetto agli ultimi lavori del trio formato da Laura Lee Ochoa (basso, voce e frontwoman della band), Mark Speer (chitarre e voce) e Donald “DJ” Jonhson (batteria, tastiere e voce) sembra essere un invito a fermarsi, faccenda complicata in questi tempi incerti e velocissimi.  

Nei brani di apertura dell’album, a partire da Fifteen Fifty-Three passando per May Ninth ed Ada Jean, riemergono infatti tracce dei primissimi lavori dei Khruangbin, abbastanza lontani dal meticciato sonoro che hanno abbracciato, ad esempio, in album come Mordechai del 2020. 

A La Sala, con la sua copertina alquanto singolare ed enigmatica, comincia con un groove funk più contemplativo, scandito dal basso sensuale di Laura Lee Ochoa a cui fanno seguito con discrezione la Fender Stratocaster di Mr. Speer e la batteria chirurgica di “DJ” Johnson. Il trio statunitense ci riporta idealmente nei luoghi desertici che circondano la città di Houston e che hanno dato vita al loro progetto artistico ma il viaggio non si ferma qui. Il termine impronunciabile Khruangbin, preso in prestito dalla lingua thailandese, significa “motore volante” ed è coerente con il percorso musicale del gruppo statunitense. 

A La Sala si snoda musicalmente seguendo i dettami di un nomadismo sonoro molto caro ai nostri: in brani come Pon Pòn, Juegos y Nubes e Hold Me Up, l’aspetto meditativo cede infatti il passo alla geografia sconfinata abbracciata dalla band in questi ultimi anni, arricchita anche da numerose collaborazioni, su tutte quella con Viex Farka Touré, da cui è venuto al mondo Ali nel 2022. L’album unisce le tipiche atmosfere sonore dei Khruangbin agli echi chitarristici blues provenienti dall’Africa Subsahariana degni di Talkin’ Timbuktu, manifesto assoluto di tutto il movimento desert blues. Impossibile non citare, tra i tanti, un altro incontro artistico della band con una delle star mondiali del soul, Mr. Leon Brigdes, che ha regalato al mondo della musica la canzone da viaggio per eccellenza di questi anni zero: Texas Sun. E poi la cultura ispanica, affrontata in punta di piedi in brani come Hold Me Up (Thank You) in cui si sfiora persino l’incontro con la cumbia senza scadere di livello.

Con Caja de la Sala e Three From Two la band decide di fare una pausa con le frasi chitarristiche di Mark Speer, pronte a disegnare idealmente i contorni di un tramonto evocati dalla parete rossa che circonda la finestra della copertina del disco. Suggestioni che diventano ancora più intense in Les Petits Gris, che chiude l’album, dove Johnson si abbandona al suono di una tastiera essenziale e bellissima, che sembra presa in prestito dal Brian Eno dei dischi ambient di metà anni ’70 (Music for Airports, Discreet Music, On Land), da ascoltare quindi ad occhi chiusi per lasciarsi trasportare letteralmente altrove. In questi anni le etichette per definire il mondo di appartenenza dei Khruangbin si sono sprecate: acid funk, soul, etno, rock psichedelico e tanto altro ancora. 

Difficile dunque approdare a una categoria che racchiuda pienamente le vibrazioni del trio texano; forse sarebbe sufficiente definirlo contemporaneo e figlio di una musica che abbatte le barriere più tradizionali del suono e, soprattutto, delle differenze culturali: un approccio, il loro, che nel 2024 sarebbe opportuno applicare non solo alla musica ma a tanti altri mondi, ma questa è un’altra storia. 

Intanto scopriremo l’11 novembre a Milano se abbiamo ancora la capacità di incontrare senza paura altre culture, spegnere i telefoni, chiudere gli occhi e lasciare per un paio d’ore ciò che più ci affligge fuori dalle porte dell’Alcatraz.

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