La giovane compagnia Divanoproject porta in scena a CampoTeatrale “Un live podcast”, vincitore del Bando Testinscena della Fondazione Claudia Lombardi: i nuovilinguaggi incontrano consapevolezze finalmente in maturazione, attraverso ilsimbolo dei classici
Questo è, senza dubbio, il tempo dei podcast. Una fortuna dovuta, forse, allo spazio di intimità che costruiscono, accostando facendo spesso un tutt’uno tra il corpo di chi ascolta e la voce di chi racconta, separandolo dal resto del mondo e facendolo precipitare, sovente, nelle sue pieghe più buie, come certe notti delle grandi città. Forse all’aver dimostrato nel modo più immediato che ogni frammento di vita si può fare narrazione, e guadagnare in enfasi e raffinatezza se si regge su uno strumento educato. Magari dalla percezione, anche quando la voce non fa che narrare, stia in realtà confidando la propria storia più intima. O forse, perché “è come quando ci si riuniva intorno al fuoco, a raccontare una storia” questa è la tesi che sposano i giovanissimi Divano project, che portano a Campo Teatrale – dopo la vittoria del Bando Testinscena, “Un live podcast”.
Che mantiene solo per i primi minuti le apparenti premesse del titolo: portare dal vivo la registrazione di quella che sarebbe una puntata true crime, con Maria (Canino) a fare da voce narrante, Gionata (Soncini) che immagina una realtà trasfigurata dai bassi techno, e Alessandra (Curia) con la sua spasmodica nostalgia del suono del verso classico, e Michele (Correra) protagonista della vicenda in veste di rumorista. Il pretesto drammaturgico è agile quanto funzionale: una competizione, delle innumerevoli a cui i giovani creativi sono costretti a passare attraverso per fare arrivare le loro proposte a un pubblico. Si direbbe una fotografia, mesta quanto nota, delle idiosincrasie del presente e delle sue più tipiche storture, il primo passo di adeguamento a un sistema all’interno del quale anche le idee dei più giovani sono chiamate ad adattarsi a format e gabbie precostituite, temi che funzionano e stereotipi facili, dal parto in diretta ai teenager che parlano di calcio.
Dietro le quinte dell’immaginario che il potere economico chiede, però, si muovono (con una sincerità interpretativa che riesce a tener fuori il moralismo) i dilemmi etici personali e del gruppo. Quanto di sé si è disposti ad asservire all’efficace, quanto è barattabile la verità? Quanta urgenza c’è davvero in temi su cui si costruiscono racconti al mero scopo di farne merce? Domande a cui il sistema culturale fatica ancora a dare una risposta ma che qui restano – ed è un pregio – più vicini al grado della suggestione. Quello che il teatro riesce ancora a far meglio dei podcast è, invece, lo slittamento dal particolare al generale, dal realistico al simbolico. Quando una sofferenza personale, come la fine di un giovane amore, e le lezioni che su di noi ci impartisce, fanno eco con le narrazioni capaci di superare il tempo. Quanto della rabbia di Michele, lasciato dalla fidanzata sulla riva della laguna, risuona in quella letale di Otello, il Moro di Venezia?
Il capolavoro Shakespeariano ha goduto di molteplici letture, ma accanto all’archetipo dello straniero c’è, nella sensibilità di oggi, soprattutto quella del femminicida, del cieco violento di cui aver paura. Un accostamento respingente per chi vi si trovi accostato, foss’anche solo per esigenze drammaturgiche. C’è la voce di molti, se non di tutti gli uomini, in quella del giovane che, in una lite culminata con uno spintone, rifiuta di leggere l’abuso che, invece, la ragazza gli imputerà.
Il live podcast, sulla scena, diventa così presto un nuovo formato, una fenomenologia della violenza: la minimizzazione della violenza e la sottomissione della percezione di lei alle dichiarate intenzioni di lui, l’ambiguità delle percezioni e le relazioni di fiducia che, nel racconto, si incrinano fino a portare sulla scena, a cinque secoli dall’Otello, nuove guerre e nuovi tradimenti.
Cambiano i mezzi, e i microfoni sostituiscono le gorgiere, ma il teatro continua a consentire, ripetendo la vita, di osservarla. Quattro interpreti di sicuro talento, tutti diplomati all’Accademia dei Filodrammatici, portano in scena uno specchio dei rapporti tra i generi ancora tanto presente da poter essere persino respingente per coloro (non solo gli uomini) che non siano disposti a riconoscere su le proprie stesse contraddizioni. La compagnia divanoproject le porta sul palco con la franchezza di una generazione che sta maturando nuova consapevolezza, e la freschezza di un testo che la pratica della messa alla prova, sera per sera (il 24 e 25 gennaio al Teatro Foce di Lugano), renderà via via ancora più suggestivo ed efficace, ma che del gran teatro ha già il senso: se l’arte – come dichiarano gli interpreti senza paura di assumersi una responsabilità roboante “può servirci a riconoscere in noi delle verità”, una di queste è senz’altro la nostra possibilità di essere abitati dagli istinti peggiori. Non si tratta, però, soltanto di intravvedere i propri lati oscuri, ma di essere disposti a guardare la realtà con gli occhi dell’altro.
La scoperta – pur utile – non è la scoperta dell’Otello, ma il lampo nello sguardo che, in una donna, produce la paura di una possibilità a cui si sente esposta, anche quando non intende agire un conflitto. Uno spettacolo teatrale non può – né deve – identificare cosa sia o meno una violenza. Però, uno spettacolo come questo riesce – nei giorni a cavallo del 25 novembre – in quello che il genere maschile è chiamato a fare per tracciare l’orizzonte di una vera eliminazione della violenza.
Tessendo uno spettacolo con l’eleganza di scrittura di Margherita Fusi Fontana e Marzio Gandola, e l’attenzione alla messa in scena che si deve a una piéce, grazie all’attenta regia di Giammarco Pignatiello, questo lavoro sceglie, malgrado le scelte drammaturgiche, lo sguardo non dell’interprete ma del protagonista, capace di essere attore, in senso etimologico, del suo racconto. Lontano dal lavoro a tesi o dalle spiegazioni, chiama chiunque riconosca nel fondo del proprio occhio quello di Otello, ad assumersi non la colpa, come sostiene qualcuno, ma la responsabilità del proprio ruolo.
“se scrivo femminicida su Word la parola viene sottolineata in rosso. Non esiste nel vocabolario ufficiale. Esiste femminicidio, ma non il sostantivo che indica l’autore. Eppure è l’autore che scrive la propria storia e la racconta, giusta o sbagliata, se ne prende cura e responsabilità”. La via, tra vita e scena, è tracciata. Non resta che proseguire.