Il portoghese Miguel Gomes insegue i suoi due protagonisti da Singapore al Vietnam, dal Giappone alla Cina, in una sorta di Babele di inizio Novecento, respingente e gentile, a tratti forse difficile per il pubblico ma certamente bella e visionaria. Un’allegoria del cinema come fuga dalla realtà, che riesce a essere poetica, divertente e spiazzante. Premio per la giuria all’ultimo Festival di Cannes
Birmania, 1917. Edward, funzionario dell’impero britannico, , protagonista di Gran Tour, riceve da Molly, fidanzata paziente da ormai sette anni, un telegramma ultimativo: arrivo a Rangoon e ci sposiamo. E lui prontamente fugge, sale sul primo treno con l’intento di far perdere le proprie tracce. Ma non ci riesce. Lui si sposta a Singapore, in Thailandia e in Vietnam, in Giappone e in Cina, insomma attraversa l’Estremo Oriente da un capo all’altro pur di sfuggire alle sue responsabilità (che lui, evidentemente, non considera tali). Ma Molly non si arrende, continua a seguirlo, chissà se prima o poi riuscirà a raggiungerlo. Ma cosa insegue, davvero? Ce lo chiediamo dalla prima all’ultima inquadratura. E fino alla fine le risposte che otteniamo sono solo in parte davvero soddisfacenti. Quello che resta, assistendo alla lunga peregrinazione incrociata di Edward e Molly – in perenne fuga il primo, all’infinito inseguimento la seconda, entrambi alla ricerca di un senso dell’esistenza che non sembrano nemmeno in grado di immaginare – è la percezione di un grande vuoto esistenziale, come una sorta di limbo cosmico dove l’unica lingua parlata è quella dello stupore, forse addirittura dello sgomento.
Chissà cosa vuole raccontare davvero il regista, il raffinato Miguel Gomes (già autore di Le mille e una notte e Tabù), in questo viaggio fascinoso e morboso, tra immaginazione e realtà, storia, sogno e finzione. Un viaggio suadente ma al tempo stesso urticante: la scelta di una fotografia prevalentemente in bianco e nero, che mescola vecchio e nuovo, passato e presente, immagini d’archivio e riprese recentissime (anche nei teatri di posa di Cinecittà) provoca un effetto inevitabilmente straniante. Fra l’altro, i due protagonisti parlano sempre in portoghese ma ogni paese attraversato corrisponde a una lingua nuova, diversa ma ugualmente incomprensibile, per noi spettatori occidentali: e l’effetto complessivo è una sorta di Babele respingente e gentile, un’immersione onirica in un mondo che ci sembra nonostante tutto vicino, pur rimanendo fino alla fine radicalmente indecifrabile.
Gomes non è un autore facile, non pare minimamente intenzionato ad avvicinare la propria poetica al pubblico medio. Anzi! Sembra fare di tutto per allontanarsi, voltando ostinatamente le spalle, indifferente alle esitazioni o incomprensioni dello spettatore che in effetti, intorno alla metà del film, potrebbe sentirsi abbandonato e solo, al cospetto di un prodotto ostico e obiettivamente difficile da maneggiare. Ma basta un po’ di coraggio, di calma e fiducia, per riprendere il contatto con quest’opera visionaria, bella e stupefacente, che in fondo ha un immenso pregio: non ci chiede professioni di fede. Non ci offre una visione del mondo (inedita o tradizionale, non importa), non pretende di convincerci di nulla, si limita a stuzzicarci, proponendoci un oggetto inquieto ed enigmatico, un gioco di scatole cinesi stilisticamente impeccabile e profondamente perturbante. Per tanti ma non per tutti, perché Gran Tour (premiato per la miglior regia all’ultimo festival di Cannes) è una scommessa ambiziosa che richiede pazienza. In cambio offre intelligenza e ironia, un’allegoria del cinema come fuga dalla realtà che riesce a essere poetica, divertente e soprattutto mirabilmente spiazzante.
Grand Tour, di Miguel Gomes, con Gonçalo Waddington, Crista Alfaiate, Cláudio da Silva, Lang Khê Tran, Jorge Andrade