Vive, la nostra Milano, di chi la fa

In Teatro

Il progetto di teatro Partecipato di Teatro Carcano e Atir arriva al suo apice portando in scena l’opera originale: una messa in scena piena di fascino e che – attraverso il teatro puro – ne restituisce tutta la valenza politica. Con cittadini che si scoprono interpreti e una strepitosa Lella Costa, più che mai “Ragazza di Milano”.

Recitare in milanese. Forse l’unica freccia che mancava al carniere della carriera e del talento di Lella Costa. Può sembrare controintuitivo nel contesto di un’esperienza di teatro – autenticamente – partecipato come è quello in scena fino a domenica 8 al Teatro Carcano. Ma vale invece la pena partire da lei per allargare lo sguardo e raccontare il terzo appuntamento con “El nost Milan”, quello in cui la città – attraverso chi la vive – si trova, sotto la guida sapiente di Serena Sinigaglia, a confrontarsi con l’opera che ai precedenti due anni di indagine sulla città ha regalato spunto e titolo: il capolavoro verista di Carlo Bertolazzi che, proprio sulle tavole della sala di Corso di Porta Romana debuttò nel 1893, prima di diventare un caposaldo della produzione Strehleriana, e aprire – lo spiega Sinigaglia in un’intervista – le porte a Brecht.

Si deve, però partire da una una eccelsa maestra di cerimonie come Costa, – anzi, rivendicativamente, la Lella – e l’uso del termine è giustificato dal suono e del suono insieme concretissimo e sacrale ritrovato da un milanese che per una manciata di sere torna ad essere una lingua viva in una città che non la ricorda e non la riconosce; tanto da dover ricorrere, anche per i milanesi, a una sovratitolatura che fa sagacemente l’occhiolino ai film coevi, ai divi (alle dive) del cinema muto. Vale la pena non solo in ragione della sua prova monumentale, in cui dà fondo, come scavando dentro se stessa, a tutta la propria forza empatica per nel dare corpo alla fame “che invecchia la vecchiaia”, alla resa di chi è costretto a sacrificare la propria vita, i propri sogni d’amore bambino come quello della Nina per il suo  Rico, il clown triste piegato dalla tisi di una Milano che forse si è perduta come la sua lingua. E’ una Milano dignitosissima e disperata insieme, che in scena suona punteggiando la vita con le voci dei suoi grandi cantori, da Svampa a Milly.

Una città dove tutto il pasto della povera gent è, quando si è fortunati, un bicchiere di vino. Lo strazio intimo che ai disperati incolla addosso una miseria senza scampo è restituita in scena con un’intensità che spinge spesso lo spettatore alla commozione, ma senza un filo di retorica. A far da contraltare, è però, la vividezza della città medesima, sul palcoscenico elevata a potenza: le sue voci sono infatti quelle di un coro di 30 cittadini milanesi, selezionati tra i centinaia che hanno preso parte, negli anni scorsi, ai ricchissimi laboratori di ATIR, coordinati da Nadia Fulco, esito del loro pluridecennale percorso di dialogo con la città. Sono loro, le persone che Milano la fanno, giovani e anziani, disabili e drag king, a interpretarne i sentimenti nella loro complessità, in bilico tra il caos del luna park e la rassegnazione della mensa dei poveri, la speranza cieca affidata al lotto e di quella ciarliera con cui la povera gente allunga l’orecchio a un mondo, quello degli sciuri che le esclude, rimane sempre fuori dalla loro portata come dalla scena, almeno fino a che la loro commovente verità non si arrende a barattare, la propria allegria mesta, fatta di sogni piccoli e d’amore nonostante tutto, con un’illusione di ricchezza che chiede, però, il più caro dei prezzi.

Quando la Nina si consegna ai panni della Bella Helene, la voce della città si trasforma in quella delle malizie dei ricchi e del disprezzo di chi rifiuta non soltanto chi povero è nato ma anche chi, come il giovane conte Riccardo, che evoca l’Armand della Signora delle Camelie senza averne la crudeltà e l’infantilismo, ne rifiuta i codici, mentre Nina è una Margherita Gautier che prevede la condanna del mondo e non si concede nemmeno un istante per dimenticarsene.Il coro si profonde in scene di gruppo di grande impatto scenico, impreziosite da costumi raffinati (di Paola Giorgi), giochi accurati di luci e buio (Roberta Fraiolo) e le scene lievi come un velo di Maria Spazzi che incorniciano i protagonisti e si muovono come al respiro di interpreti non di rado sorprendentemente efficaci nella parte, che la regia di Sinigaglia esalta con il medesimo rispetto che si deve agli interpreti di rango: si dovrebbe menzionarli tutti, per nome, come è buon costume fare con le compagnie apprezzate: valga l’invito ad andare a teatro, e a riconoscere – tra i molti – i prim’attori, nei panni antichi degli amorosi e delle maschere di commedia (se poi di commedia davvero si tratta).

E a identificare, anche, la statura di classico del Bertolazzi, misurata nella sua capacità di interrogare il presente, nei gesti del denaro e del potere che fanno delle donne tutto ciò che desiderano come il Togasso della Nina (“tutte ne abbiamo conosciuto uno”), o nella corsa all’ostentazione che, anche oggi, approfondisce le disuguaglianze e al contempo incatena chi prova, come può, a galleggiare nel mezzo. Proprio questa resa artisticamente emozionante mette a valore e rende evidente la forza dell’azione scenica come gesto politico che ha guidato il progetto in questi tre anni. Solo passando attraverso la parte ce ne si può spogliare e riconoscere cosa ha lasciato a chi c’era e ad una città che “ti prende a schiaffi, ma è sincera”, o forse potrebbe – quantomeno – tornare ad esserlo. A patto di dare spazio, con cura ed eleganza, a chi la fa vivere.

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