Più della scaramanzia che circonda l’opera verdiana poté la musica, si potrebbe dire. Applausi convinti alla prima scaligera de ‘La forza del destino’, protagonisti indiscussi il direttore Chailly, la Leonora di Anna Netrebko e il coro di casa in stato di grazia. E la regia, che ha per idea forte il ripudio della guerra attraverso i secoli, appare tradizionale ma capace di dare fluidità al racconto
E così, a parte qualche insondabile screziatura di alcuni tristi isterici, Sant’Ambrogio è finito in gloria, come la Scala avrebbe firmato a occhi chiusi alla vigilia di un sette dicembre con il titolo di Giuseppe Verdi che perfino musicologi rinomati evitano di nominare, per scherzo ma non troppo. Due i protagonisti indiscussi di questa inaugurazione: Riccardo Chailly e Anna Netrebko, l’uno padrone assoluto di orchestra e drammaturgia, l’altra signora non meno trionfante del canto e del palcoscenico. Ma anche tre: aggiungiamo il Coro in stato di grazia, guidato e imboccato da Alberto Malazzi.
Tutto a posto, dunque, sulla scia di annunci, presentazioni, conferenze, interviste, convegni, sponsor e quella “Scala diffusa” che offre occasioni lodevoli (parlare dell’opera nelle carceri) ma tradisce sempre un po’ di vergogna nell’amministrazione pubblica per il rito esclusivo ed elitario. Chissà perché: la città ne va orgogliosa anche se non lo vive; la gente tiene la prima della Scala come gloria cittadina nonostante o proprio perché elitaria.
La più bella cosa resta l’anteprima Under 30, inaugurata da Stéphane Lissner, che ancora una volta (il 4 dicembre) ha rinfrescato il teatro con l‘entusiasmo di una generazione che quando la “verità” chiama zittisce i luoghi comuni.
La doppia Sinfonia
La serata più ansiosa dell’anno si scalda subito quando Chailly dirige in forma deluxe quell’Inno di Mameli che di Mameli non è, ma del povero Michele Novaro che l’ha messo in musica.
Chailly rifinisce l’Inno con eleganza che la trasforma in una pre-Sinfonia avanti l’opera, focosa ma nobile. Perfino smoking e decolleté la sussurrano a mezza voce. Assente giustificato il Presidente Mattarella, da anni destinatario del primo trionfo di serata, volato a un’altra inaugurazione, Notre-Dame restaurata, della quale la vecchia Europa dovrebbe ugualmente essere orgogliosa.
Alla vera Sinfonia avanti l’opera, uno dei bis verdiani più corteggiati, capiamo subito come sarà tessuto l’abito della Forza del destino: cura estrema della concertazione, cesello di ombreggiature e messe di voce, assolvenze e dissolvenze di linee, timbri, colori. La Sinfonia espone tutti i temi che trapuntano l’opera, così riconoscibili da tentare di scambiarli per leitmotiv “á la Wagner”. Per carità, non lo sono, o almeno lo sono all’incontrario: Verdi ha composto la sinfonia dopo il debutto a San Pietroburgo (1862), per la ripresa del 1869 a Milano (dove si mise a concertare di persona), concentrando i temi dell’opera a posteriori, arricchendo la Forza con l’elemento più distintivo, insieme al finale sfumato e antiretorico, della “versione Scala” che Chailly ha naturalmente scelto per la sedicesima opera verdiana della sua carriera, nel teatro che dirige da dieci anni. La Sinfonia è il primo elemento di sintesi di cui aveva bisogno l’opera più sfrangiata che Verdi abbia scritto. L’unica che abbia come titolo un concetto, non un nome. E Riccardo Chailly inizia la sua lettura con lo slancio di tempi e l’evidenza melodica dell’ouverture per finire sul mormorio di un morente finale che anticipa quello di Aida e ci sospende sul senso della vita.
La Forza ha un problema?
La trama che Francesco Maria Piave (e Ghislanzoni in parte) ha messo in versi con il tormento di Peppino, faticano un po’ tutti, pubblico e studiosi, a tenerla insieme. Non ha torto Anna Netrebko a confessare che “una donna di oggi, come me, non si riconosce nella Leonora che la Forza racconta”. Il che non le impedisce di cantarla a meraviglia e di salutare il pubblico agitando la manina, come una bambina felice.
La Forza ha un problema? Giudicate voi. Le unità che Aristotele raccomandava sono fatte a pezzi. Il tempo è un Settecento dilatato. Il luogo sono tanti luoghi: la Spagna, l’Italia, Siviglia, Hornachuelos, Velletri, un palazzo, un’osteria, una montagna imprecisata, una valle “dei dintorni”. L’arco della narrazione è stirato all’inverosimile: tra il primo e il secondo atto passano diciotto anni, tra il secondo e il terzo ancora qualche anno, tra il terzo e il quarto altri cinque. Gli attori della storia cominciano giovani e finiscono quasi vecchi (i cantanti no). L’opera narra di un amore negato, fra Leonora (soprano drammatico) e Alvaro (tenore eroico), separati, inseguiti, persi e ricongiunti quando non c’è più niente da consumare, perché entrambi si sono rifugiati nella penitenza, nella religione, nello stesso convento, ma a loro insaputa.
La Forza del destino narra di una morte accidentale (del marchese di Calatrava, basso severo, colpito dalla pistola gettata a terra da Alvaro), di due morti minacciate (da Carlo ad Alvaro e Leonora, uno perché assassino l’altra perché indegna) e due infine compiute (di Carlo, però, colpito da Alvaro, e di Leonora punita in extremis dal fratello). Si racconta di una voglia di vendetta che non si affievolisce mai in 25 anni e di una maledizione (di Calatrava) che distrugge la vita dei due giovani fino all’ultima scena: parola ripetuta da tutti. Di qui il transfert della maledizione sul titolo. Anche gli ambienti fanno girare la testa: la villa di Calatrava, i campi di battaglia, i monti, le valli, il convento. Questo errare in cui si perderebbe anche Google Maps rende la Forza un’opera che non si lascia afferrare. Solo le invenzioni musicali di Verdi le danno luce e coerenza.
Occhio
Leo Muscato ha costruito su questo formicolìo drammaturgico uno spettacolo in fondo tradizionale, nel segno e nella regia; prevedibile nell’immagine e nel gesto, singolo e corale. Ma un’idea forte tiene insieme tante differenze: la vera maledizione è la guerra che fa soffrire tutti allo stesso modo e rimpicciolisce le sventure personali. Lo spettacolo inizia con i costumi e i fucili a pietra focaia del Settecento, come da libretto (atto primo e secondo), s’infila nelle trincee nevose del ‘15-18 (atto terzo) e ci consegna alle mimetiche e ai kalashnikov nell’atto quarto (Ucraina?). Un palcoscenico girevole ruota senza sosta aprendo il chiuso e chiudendo l’aperto, mostrando arredi e alberi, nascondendoli, svelando cori di soldati e riti di candele. Che si tratti del cerchio del destino lo sappiamo dalle parole di Leo Muscato e delle sue brave collaboratrici: Federica Parolini, che ha progettato le scene, e Silvia Aymonino, i costumi. L’occhio vede solo un normale e collaudato piatto girevole, che ha però il merito di non avere bisogno di cambi di scene (nelle quali non manca un solo dettaglio da libretto), non spezza il racconto, conserva varietà e sorpresa, fa respirare le parti da affresco storico. La musica corre con l’orchestra in buca e il coro in scena ad avvolgere in scioltezza la buona compagnia di canto. Senza inciampi.
Orecchio
Non c’è discussione. Anna Netrebko canta un Verdi a sé. Tocca tutte le vene: la lirica (“La Vergine degli angeli”), la drammatica (“Me pellegrina ed orfana”), l’addolorata (“Pace, pace mio Dio”). Squilla, smorza, ha accenti che parlano e colori seducono. Il successo per lei comincia alla prima aria; al “Pietà, Signor” è già trionfo. Tra gli altri, piace al pubblico ma non entusiasma il tenore americano Brian Jagde, che ha sostituito in extremis Kaufmann: più che cantare, esibisce la voce come fosse muscoli, senza espressione. Il pubblico dimostra le sue preferenze (giuste) a scena aperta per il Don Carlo di Ludovic Tézier, che potrebbe tentare anche appoggi più morbidi, per la Preziosilla piccante di Vasilisa Berzhanskaya, per il Fra Melitone di Marco Filippo Romano, vivo, paradossale, attore, in un ruolo che rifila invettive da generale Vannacci. Si porta bene il Trabuco di Carlo Bosi. Mentre il Padre Guardiano di Alexander Vinogradov sarà “pietoso” e autorevole ma anche legnoso.
Ma infine, torniamo al terzo o forse secondo protagonista di questo successo: il Coro della Scala, che ingioiella con sublimi mezzevoci la “Vergine degli Angeli” della Netrebko, dà senso e pienezza agli squarci “sociali”, agli sguardi sulla povera gente, vera vittima della guerra, che a Verdi venivano dalla sua etica e dal suo libro preferito, I promessi sposi. Grazie a Manzoni, venerato come Shakespeare, Verdi coltivò l’idea di un’opera che assomigliasse a un romanzo storico, osando una complessità mai tentata prima, né dopo.
Foto: Brescia e Amisano ©Teatro alla Scala