In occasione dell’anniversario dei 125 anni dalla fondazione della FIAT, il MAUTO – Museo Nazionale dell’Automobile presenta la mostra “125 VOLTE FIAT. La modernità attraverso l’immaginario FIAT” che ripercorre la lunga storia della fabbrica automobilistica torinese visitabile fino al 4 maggio 2025, in concomitanza con TORINO STOP, mostra di Christian Chironi dove la sua Fiat 127 Camaleonte, dopo aver viaggiato sulle strade di mezzo mondo, sarà al centro dell’esposizione fino al 12 gennaio 2025.
Pensare l’esistenza di un museo dell’automobile dovrebbe farci sorridere visto che se ci proponessero una visita al museo della sedia, o delle ciabatte, o delle porte, eccetera, sono piuttosto sicuro che non ci ci andremmo, dato che la nostra quotidianità è basata in gran parte sull’utilizzo consapevole o inconsapevole di questi oggetti tecnologici, per i quali la continua esperienza estetica costituisce oramai una soglia dell’abitudine muscolare, visiva, uditiva, mentale (quale diamine di idea geniale non è partorita in auto?). Sarebbe infatti strano, poi, entrare al museo delle scale tramite delle scale, a quello delle porte con delle porte, eccetera, senza prima aver prima calcolato, che, al contrario, è precisamente lo spazio dell’abitudine a creare la possibilità di una rimozione, ed è proprio questo morbo che, come un manto di neve, o come quella polvere che si deposita sulla città per gli effetti di un crollo, impedisce di percepire le differenze fra le cose e appiattisce lo sguardo a uno spazio grigio e inafferrabile dove tutto è uguale.
In effetti io un’automobile non ho bene idea di che cosa sia, e basta che ci pensi un attimo perché questa rumorosa presenza diffusa e omnipervasiva (in Italia, oggi, sono 681 per 1000 abitanti) che di solito mi è indifferente o amicale, mi appaia subito invece inquietante e aliena; ed è assurdo che questo goblin meccanico che, a tratti, in base ai progetti più o meno subdoli dei designer, assume fisiognomie umane o teriomorfe, abiti il mio stesso spazio vitale assieme a i miei amici i miei parenti e il mio animale domestico, sbilanciando preoccupantemente il mio termometro di che cosa possa essere definito un nucleo familiare. Anche perché nessuno di chi mi sta così vicino avrebbe in sé una potenza tale da prendere fuoco, esplodere da un momento all’altro, capacità di bere benzina, correre a 200 km/h eccetera. La prima sala del museo conferma ogni mio sospetto sull’ombra distruttiva di questo corpo metallico, esponendo , a mio parere, la migliore rappresentazione di che cosa sia un’automobile: è il mitico Carro di Cugnot, del 1769, il primo esemplare nella storia di veicolo non alimentato da forze animali . Si tratta di un carro enorme, di legno, con una specie di grosso calderone sul davanti dove ribollono i fumi dell’alimentazione a vapore. L’inventore, Cugnot, troppo sbadatamente, intestardito dal desiderio di muoversi in avanti, si è dimenticato di pensare anche ad un impianto frenante per interrompere il suo moto, costringendo così il pilota-martire che volesse fiondarsi alla guida del suo mezzo avanguardistico ad una serie ripetuta di schianti… La prima automobile della storia passa il tempo a spaventare i cittadini e a schiantarsi contro i muri, inaugurando, assieme al suo primato scientifico, anche quello meta-storico dell’incidente stradale (ovvero, chiaramente, la necessità di un arresto al nostro progredire che se non viene prevista e rispettata da una complessa organizzazione di tipo tecnico verrà comunque inevitabilmente effettuata, ma in maniera violenta e traumatica da agenti fisici esterni e ineludibili ai nostri intenti, nel caso di Cugnot, i muri, nel nostro caso, è ancora da verificare).
La visita prosegue nelle prime sale con una serie infinita di oscillazioni in forme colori dimensioni e modalità tecniche di esecuzione dei primi modelli di automobile volti a massimizzarne l’efficienza. Appaiono, in ordine sparso: una sorta di razzo-supposta con le ruote e proteso verso il futuro, la Jamais Contente, che nel 1899 funziona a elettricità (l’idea viene subito scartata?); delle turbo-carrozze enormi, l’automobile extralusso della regina margherita; una lunghissima Isotta Fraschini con cui Marinetti si sarebbe schiantato e capovolto in un fosso un anno prima di scrivere il Manifesto Futurista. Modalità apparse tutte in una manciata di anni e che, oltre a svelare l’euforia sperimentativa propria di un nuovo secolo, offrono qualche indizio sulla cifra di quel processo che sotto suggerimento di un poeta ubriaco e strafatto di hashish abbiamo chiamato modernità. La fugacità che costui ravvisa nella bellezza chiaramente non è altro che il sintomo di un processo più esteso di accelerazione nelle dinamiche tecnologiche e sociali atto a semplificare azioni o meccanismi prima lenti e complessi in una loro nuova versione velocizzata. Si tratta cioè di una società basata sull’intontimento percettivo generato dai traumi dei “gesti bruschi” (Benjamin si riferiva allo “choc” e in maniera allegorica allo scatto del fotografo). Sarebbe infatti impensabile oggi immaginare di sostituire ai nostri sistemi di mobilità – treni auto aerei navi parabole server – che a catena reggono il nostro sistema economico particolare a delle infrastrutture invece troppo lente e complesse come quelle pre-moderne dei maneggi, che certamente non reggerebbero il peso di una tale quantità e circolazione di merce-informazione – stremerebbe i cavalli – e che richiederebbero comunque delle figure preposte alla cura amorevole delle povere bestie tali da dover strutturare i ritmi economici globali su una ritualità lenta e inadeguata relativa ai ritmi metabolici del corpo animale (sonno-veglia, alimentazione a fieno, defecazione, gioco, eccetera)
E’ infatti evidente che la nascita di questo tipo di società dominata dalle tecnologie della velocità – che appropiandoci di un concetto di Paul virilio potremmo riassumere brutalmente come “dromocrazia” – non è da ravvisare in picchi demografici o rivoluzioni industriali, ma, per una mia inconfutabile teoria, in un preciso fatto storico che riguarda nella fattispecie il trauma di un equino, che nel 1889 si trova a Torino, in Piazza San Carignano, casualmente non troppo distante al MAUTO – una meta che avrei voluto veramente aggiungere al mio itinerario se, appunto, non fossi stato di fretta perchè dovevo prendere il treno. Si tratta dell’episodio mitologico la cui visione dischiude Nietzsche alla follia: un cocchiere, bavoso e sbraitante, posseduto da una fretta che come una pulce controlla ogni fibra il suo corpo, fustiga a sangue il suo povero cavallo, che, invece, fiacco e privo di energie per iniziare il suo trotto, decide di soccombere alla frusta per continuare a stare fermo. Su quella frusta grava l’ombra di una entità sovrastorica gigantesca e articolata in un sistema razionalizzato ed efficiente e di cui quel povero cocchiere non era altro che il suo primo inerme funzionario – il funzionario di una gestapo della velocità – con un unico ordine programmato: La sosta è la morte.
Per quella sorta di colmo involontario che è l’umanità, e per un’acuta intuizione di proto-marketing, i primi produttori di automobili, quelli che qualche anno più tardi conquisteranno la città stessa a bordo della FIAT, Itala, Rapid, Lancia, Cerlino, decidono di chiamare l’unità di misura della potenza dei motori a scoppio “cavallo” (horsepower) per indicare la quantità di queste bestie che ci vorrebbero per generare altrettanta potenza trainante. (Sfortunatamente, il filosofo i non vivrà abbastanza per vedere pienamente applicato sotto ai suoi occhi questo regime non più basato sul paradigma dello scorrere del sangue degli animali da soma, bensì, su quello modernissimo e tutto umano degli operai in fabbrica).
E’ ancora reduci dall immagine fondativa del loro impero che dunque FIAT, Itala, Rapid, eccetera, cercano di appiccicare il motore a scoppio al design regale delle carrozze, nel tentativo di sostituire la potenza animale a una sua versione più efficiente perché sprovvista di disubbidienza (apparentemente), creando così delle prime mostruosità meccaniche a vederle oggi di dimensioni spaventevoli e inadeguate per l’odierna unità abitativa del garage e decisamente più adatte per esempio a un maneggio. E’ infatti una fortuna che il MAUTO decida di esporre questi veicoli pantagruelici fermi spenti e probabilmente decarburati, consentendo ai visitatori di godere tranquillamente di questa visione sublime in termini propriamente estetici, e non in quelli bellici e conflittuali della circolazione su strada. Perchè se solo dovessi immaginarmi a inizio secolo a attraversare la prima strada catramata dall’ingegnere Guido Rimini nel 1901 per raggiungere il panettiere, sarei certo affascinato, ma più che altro terrorizzato all’ombra di queste inediti potenze che mi sfiorano e che, prima del tardivo avvento del codice della strada nel 1929, genererebbero in me un senso di confusione rispetto ai rapporti di potere tra la classe d’assalto tecnicamente egemone degli automobilisti e quella reazionaria dei pedoni… rapporti che non farei fatica a immaginarmi come uno spazio d’arroganza dove avrebbe il diritto di passare per prima chi occupa più spazio (carrozze giganti a dispetto della quale volontà di tagliarmi la strada mi arrenderei sicuramente).
Non sarebbe cioè un problema parlare di automobili finchè queste si limitino alla visione di uno splendido prodotto dell’ingegno umano o delle illustrazioni dei libri per bambini di Richard Scarry eccetera.
Ma parlavo, all’inizio, degli effetti dell’abitudine come meccanismo di rimozione.
Quando per esempio Virilio proponeva di istituire un museo dell’incidente, non faceva altro che rendere evidente la necessità di inquadrare anche il Lato B di quello che, come per colmo, siamo soliti chiamare positivamente Progresso (un processo di desertificazione del mondo e di bunkerizzazione dell’umano nelle città) . In questo senso c’è un grande argomento taciuto che, dopo l’incidente, meriterebbe un museo complementare a quello bellissimo dell’automobile, una non trascurabile e catastrofica invenzione preliminare, ancora sprovvista di museo, che determini il capillare potere di una industria così florida sull’orlo della crisi: l’asfalto.
(Senza contare le altre miriadi di sotto-musei della distruzione che potrebbero completare l’esegesi ma che non servono a questa strampalata narrazione: il museo dell’estrazione petrolifera, il museo della CO2 , il museo della catena di montaggio, il museo dei rospi schiacciati durante il periodo dell’accoppiamento, il museo della musica da radio, eccetera)
L’argomento verrà sbrigativamente introdotto dai dirigenti del MAUTO una sola volta e in una sala sulla guerra, parlando di Mussolini, che prima di fallire un paio di volte con il sogno troppo precoce di una democratizzazione totale dell’automobile – in Italia avrebbe simpaticamente assunto il nome di FIAT Topolino e nelle terre del suo collega germanico quello cacofonico di Volkswagen – decide di reindirizzare parte delle risorse economiche destinate all’industria dell’automobile alla costruzione preliminare della prima autostrada al mondo, la Milano-laghi, dell’ingegner Puricelli.
Ma visto che, appunto, questo sogno dromocratico fallisce ( anche perché poi, in maniera inquietante, davvero troppo rapidamente le fabbriche di automobili vengono convertite a industrie belliche e per un automobile estesa alle masse dovremmo aspettare il BOOM del dopoguerra) dovremo immaginarci questa fantomatica e avanguardistica striscia di asfalto come vuota o semi-deserta per i successivi quindici anni. Apparirà allora così dannatamente evidente l’assurdità paesaggistica di che cosa sia una strada: una linea grigia che dall’alto sembra segare in due territori, e che in base alla forma – retta o imprevedibile e curvilinea – rivelerà senza saperlo un nostra attitudine mentale rispetto al nostro agire sull’ambiente, se rapido e impietoso, tale da dover bucare una montagna una valle o un paese, o se lento e accorto, tale da assecondare i ritmi morfologici della terra su cui posa la sua pelle. E’ evidente che l’autostrada – la velocizzazione della comunicazione a discapito di ogni altro dato dell’esistente- rivesta il primo caso, e che sia precisamente il passaggio simbolico dallo sterrato all’asfalto a liberare pienamente un potere e una violenza di origine militare. Perchè pensandoci: quale diamine di entità si è assunta il diritto di sostituire a questa viva e multiforme porzione di suolo precisamente di fianco a casa mia? L’automobile estesa ad ogni suo campo è questo: un dispositivo impietoso di colonizzazione del territorio, che fa assomigliare i tratti di una industria privata a quelli di un potentissimo impero, ubiquo e globalmente esteso. Per gli adepti di questo regime sembra che in funzione di un tempo schizoide e accelerato tutto il resto scompaia- come in quei quadri orripilanti di boccioni, quelli che vanno, dove per la velocità percepita il paesaggio è reso irrappresentabile, inizia a scorrere e scompare, viene trasformato in un magma astratto e confuso dove per esempio sarebbe veramente difficile riconoscere un rospo o un pedone che vuole attraversare la strada per andare a riprodursi sulle sponde del lago eccetera.
E’ come se l’automobile abbia assunto l’effetto di quello che è stato per noi, biograficamente, la Crescita: non riconosciamo più la dimensione degli oggetti e degli spazi della casa d’infanzia, e quel mondo che un tempo era esteso e denso di segreti diventa improvvisamente minuscolo ed esaurito, in un mutismo che suggerisce solo lo scorrere del tempo e la durata. Così, questa specie di ominidi alla scoperta di questa palla nello spazio, una casa che a bordo delle automobili appare sempre più piccola e scomoda e priva di mistero…
Non resta che radicarsi, qui ed ora, in questo paese che appare piccolo e muto, oppure partecipare al trambusto di questa traiettoria accelerata nella speranza di una grande fuga?
E’ tediato da questo dramma interiore che concludo la mia visita al MAUTO imbattendomi nella mostra di un’artista che da un lato interrompe questi miei eccessivi deliri interpretativi e dall’altro probabilmente li riconferma tutti, riportando precisamente la questione dell’automobile a un problema abitativo e di rapporto con lo spazio.
TORINOSTOP!
Si tratta del parcheggio momentaneo della FIAT 127 di Cristian Chironi, una simpatica automobile “camaleonte” in stato di STOP che accompagna l’artista in un serie di performance cosmopoliticamente itineranti e che, nomen omen, ha l’abilità di cambiare colori della carrozzeria in base al paesaggio dei luoghi esplorati.
Le precise tinte di cui si carica – giallini rosini verdini rossozzi – sono quelle con cui l’architetto Le Corbusier configura i suoi edifici secondo un progetto, quello modernista, che a ragion veduta si rivela fallito: è indubitabilmente chiaro che costui non aveva capito nulla di cosa doveva essere una casa, giacché la funzionalità che dovrebbe essere primaria per l’uomo moderno non è mai considerata. Si è dimenticato di applicare alla base dei suoi edifici delle RUOTE che rendessero le case mobili e ubique e non legate all’appartenenza di uno specifico luogo. E in generale non ha pensato a troppi garage. Pff! Quale poca lungimiranza da parte di questo architetto che infatti ha dovuto subire una correzione, direi di tipo ontologica, che trasforma il suo aforisma “una casa è una macchina per abitare” in quello che per la serie di performance Drive potremmo tradurre come “una macchina è una casa da guidare”.
Delle foto-ricordo appese al muro ritraggono questa splendida scultura mobile del 1971 quasi-ready-made riposarsi in stato di STOP al fianco dei monumenti artificiali e naturali dei più disparati paesaggi: Calasetta, New York, Torino, Marsiglia, Bologna, Prato, Bolzano, inidentificati piccoli paesi delle campagne italiane.
Chironi in effetti sembra animato da una certa preoccupante forma di dromomania, quella che in ambito clinico definiremmo una tendenza nevrotica che si manifesta come il bisogno non sopprimibile di vagare da un posto all’altro, e che rispecchierebbe a pieno le condizioni di quello che, poco fa, ingigantendo il problema ho iperbolicamente definito un impero. Ma, paradossalmente, la macchina di Chironi non è separata da quella dell’autismo comunicativo tipica dell’automobilismo e delle linee di scorrimento continuo, animate da un codice insondabile che escluderebbe a priori lo spazio che non partecipi al sua circolazione. Anzi, sembra percepire e assumere in sé stessa l’essenza propria dei luoghi, cambiando pelle con interventi pittorici, e ospitando durante suoi viaggi simpatiche presenze umane ricche di aneddoti e di esperienza comunicabile. Si tratta di un viaggio in macchina dove la colonizzazione è invertita: è l’interno dell’automobile ad assorbire il paesaggio, la specificità di un luogo, e a partecipare in uno spazio aperto dove non esiste solo asfalto e altre vetture, ma case, mondo, persone, architettura. E’ un improbabile esercizio di trasparenza – per noi pubblico museale – ma a dire il vero, agli occhi dell’omologato frequentatore del traffico cittadino, uno squarcio estetico abbastanza evidente visto che la FIAT camaleonte è bellissima e colorata.
Chironi con la scusa dell’arte ipotizza un tipo di un tipo di automobilismo sano che si riappropria del concetto di paesaggio – uno spazio di compresenze dove la vita umana e le relative strade non siano faccenda primaria. Una sfida ardua per il futuro della Chang’an Automobile, Dongfeng Motor Corporation, Shanghai Automotive Industry Corporation e Tata Motors.
STOP!
Christian Chironi, Torino Stop, Mauto– Museo Nazionale dell’Automobile, fino al 12 gennaio 2025
In copertina: set cinematografico per la pubblicità della Fiat Nuova 500, 1957