Daniele Cassandro in “Dischi volanti: 40 album alieni da Duke Ellington a Lady Gaga” invece di puntare i riflettori sui capi d’opera illumina le zone d’ombra di opere dall’esito incerto ma che segnalano svolte o sperimentazioni all’epoca non ben comprese
Musicisti che si reinventano scartando di lato o che mettono a repentaglio la loro carriera con atti di deliberato autosabotaggio; che evadono dalle gabbie dei generi o aprono porte su altri mondi; che increspano il mare placido del pop con un immaginario gonfio di spleen, arrivando talvolta a lambire i territori del noir; che pattinano disinvolti sul terreno del teen drama o, ancora più arditi, giocano sull’imbarazzo e la vergogna che suscitano in chi li ascolta cavalcando il cringe. Li racconta, con quaranta ritratti vividi che si rivelano una miniera di piccoli e grandi aneddoti e, al tempo stesso, di puntuali e insospettate contestualizzazioni, Dischi volanti (pagg. 224, 17 euro), che l’editore Curci pubblica nella collana “Correnti” diretta da Carlo Boccadoro.
Lo ha scritto Daniele Cassandro, giornalista colto e di gusti raffinati quanto onnivori, raccogliendo in volume la rubrica “Dischi da salvare” che a partire dal 2020 tiene sul sito di Internazionale. Si spazia dal pop tra vecchi crooner e più recenti divi del synth – è un terreno, in genere indagato con sguardo distratto e sufficiente dai cultori del rock e dell’autorialità, in cui Cassandro si muove con acume e originalità – alle tante declinazioni della musica nera, dal jazz all’hip-hop, dal country contaminato alle sonorità scandinave, dalle colonne sonore eccentriche al rumorismo rock, dalle band adolescenti a interpreti mitiche come Nina Simone e Judy Garland, dalla musica brasiliana al recupero, temerario e divertito, della peggiore cantante di sempre, Florence Foster Jenkins: sul grande schermo l’ha interpretata Meryl Streep, ci torneremo.
Che cosa ha spinto Cassandro ad affrontare una massa così eterogenea di materiale sonoro? L’insofferenza nei confronti delle barriere dei generi e della “musica liquida” che ci sta facendo perdere la capacità di sentire-ascoltare, che sta trasformando tutto in sottofondo e rumore bianco, in bocconcini piccoli e facili da inghiottire. «La ragione per cui questi miei testi, inizialmente così brevi, si sono fatti sempre più lunghi e articolati è che, scrivendoli, ho riscoperto il piacere di ascoltare a fondo un disco, di dargli il tempo e l’attenzione che merita. Soprattutto, il mio tentativo era quello di ridare alla musica, sempre più smaterializzata e sradicata dal suo tempo, un contesto.
In queste storie, che spaziano dal 1935 (Duke Ellington) al 2013 (Lady Gaga), si parla degli artisti e della loro epoca, dell’industria in cui si muovevano, del pubblico che volevano raggiungere e dell’effetto che il loro lavoro ha avuto sulla musica a venire. Intorno ai dischi (avrete capito che mi piace ancora chiamarli in questo modo) si addensano così tante variabili storiche, sociali, estetiche, politiche ed etniche che riannodare tutti questi fili diventa un lavoro affascinante e molto divertente».
Un diverso modo di raccontare la “popular music”. Avendo presenti stili, correnti e interpreti che si sono succeduti nel corso dei decenni. E, grazie a questa conoscenza, evitando di puntare i riflettori soltanto sui capi d’opera (l’esercizio ormai stucchevole di attribuire le stellette) ma illuminando le zone d’ombra, gli incidenti di percorso, gli intoppi, i dischi magari non troppo riusciti che mettono in moto le svolte, o le sperimentazioni coraggiose e non pienamente recepite nell’epoca in cui si manifestarono.
Cassandro ha attenzione quasi empatica anche per i protagonisti che il voyeurismo di massa ha cannibalizzato e messo in ridicolo. Per esempio quando racconta «l’industria che tra il 2007 e il 2008 ruotava intorno al crollo pubblico di Britney Spears, ex diva bambina prodigio e star internazionale data ormai per spacciata. Riviste di gossip sia cartacee sia online, blog, agenzie fotografiche, i social network ancora ai loro albori, tutti volevano un souvenir della caduta di Britney Spears, un po’ come tutti si portavano a casa un pezzo del muro di Berlino nel 1989. Le foto di Britney che, con aria spiritata, afferra il rasoio dal parrucchiere e si rasa i capelli a zero, e quelle di qualche giorno dopo in cui dà in escandescenze e prende a ombrellate l’auto del paparazzo sono state divorate da un pubblico che stava scoprendo la forza dirompente che il branco poteva avere nella rete».
In quel terribile reality show della sua caduta, Britney Spears canta, «con voce robotica e deumanizzata», la sua immagine pubblica in pezzi: «Sono la signora stile di vita dei ricchi e famosi (volete un pezzo di me?) / Sono la signora oh mio dio quella svergognata di Britney! (volete un pezzo di me?) / Sono la signora esclusivo! Ultimissime notizie! (volete un pezzo di me?) / Sono la signora è troppo grassa è troppo magra (volete un pezzo di me?)».
È solo un esempio, ma si potrebbero fare anche quelli del grande Tony Bennett costretto ad abbandonare il classico songbook americano per cimentarsi con i successi contemporanei, che raggiunge la sala d’incisione come il condannato destinato al patibolo. Della brasiliana Gal Costa gloria nazionale che si scrolla di dosso l’immagine patinata reinventandosi sexy e disturbante: sovversiva come era il tropicalismo negli anni ‘60 e ‘70. Di Liza Minnelli destinata al circuito “adult” di Las Vegas che si fa cucire addosso dai Pet Shop Boys un disco dance che la riporti nel presente. Di Peggy Lee, quella della celeberrima Fever, diva avviata al viale del tramonto, che al contrario reagisce con un disco aspro sulla fatica di invecchiare. Di Duke Ellington che nel 1935 scardina la formula del 78 giri breve e ballabile con i tredici minuti di Reminiscing in tempo, una suite composta in solitudine per rendere omaggio alla madre scomparsa. Di Irene Papas che fa convivere la lamentazione funebre della Grecia preomerica (Cassandro cita appropriatamente il Patrick Leigh Fermor di Mani) con l’elettronica di Vangelis.
Molti altri dischi si potrebbero citare, ma si finirebbe per riassumere l’intero libro. Per me Dischi volanti è stata l’occasione per utili ripassi, anche poetici: Lana del Rey che, a sorpresa, in Honymoon recita il Thomas Stearns Eliot di Quattro quartetti:
Il tempo presente e il tempo passato / sono forse entrambi presenti nel tempo futuro, / e il tempo futuro è contenuto nel tempo passato. // Se tutto il tempo è eternamente presente / tutto il tempo è irredimibile.
E per non poche scoperte. Due su tutte, il folgorante La llorona di Lhasa de Sela, una cantante americana naturalizzata canadese che aveva scelto di cantare in spagnolo. E il country ribelle e omosessuale, delicato e rabbioso, di Country lavender.
Resta da dire di Florence Foster Jenkins (1868-1944), esempio inarrivabile di cringe: una che ci si vergogna per lei, a sentirla cantare. Florence non pativa questi imbarazzi: «Qualcuno dice che io non sapessi cantare, ma nessuno potrà mai dire che io non abbia cantato». Newyorchese e ricca, poteva permettersi di affittare sale da concerto e invitare amici bennati che la ascoltassero mentre latrava. A Daniele Cassandro serve per un’annotazione aguzza: «Florence Foster Jenkins, anche nell’ecosistema musicale contemporaneo, ha l’ultima parola. Provate a cercarla su Spotify e scorrerete tutte le sue incisioni più atroci. Provate a cliccare su “artisti simili”: troverete Maria Callas, Marilyn Horne e Jessye Norman, praticamente le più grandi cantanti liriche del secolo scorso. L’algoritmo di Spotify non riesce a distinguere quella qualità che rende Maria Callas “la divina” e Florence “il peggior soprano del mondo”. La signora Florence Foster Jenkins, nel lontano 1944, era già attrezzata per il postmoderno, per il post-gusto e forse anche per la post-verità». Dischi volanti, un libro prezioso.