Acanto: prestarsi la vita, nell’attesa

In Teatro

Nicola Russo porta al Teatro Franco Parenti fino al 19 gennaio, prodotto da Monstera, un nuovo lavoro poetico e intimo, che si regge su due intensi protagonisti per raccontare la profondità dell’animo quando la vita chiede di riavvolgere il nastro del passato

Cosa accade di noi nello spazio dell’incontrollabile? Nel luogo dove attendiamo quel che potrebbe (o forse no?) deviare irrimediabilmente il corso dell’esistenza? Ritorniamo, o riscopriamo quel che siamo stati. Quantomeno, questa è la risposta che si dà Nicola Russo, autore di Acanto, che arriva nella raccolta Sala Tre del Teatro Franco Parenti posando con accogliente e discreta sincerità lo sguardo su due vite comuni e forse per questo perfette per farsi simbolo di due mondi e due frammenti di tempo che si parlano, si sfiorano – talvolta si stringono – ma che, malgrado i tratti in comune, sono ancora poco abituati a conoscersi e forse a comprendersi: quando ci si scopre in due, – interrompendo il filo dei pensieri con cui, quando si vuole convincersi di essere adulti, si prova a ricacciare indietro la tensione o la paura – si può condividere l’identità: maschio, gay, eppure affacciarsi sull’altro con, ancora, tutto il suo mistero.

Sulla velocità e sulla fame d’intimità travestita da disinteresse dei ragazzi che, oggi, cercano sulle chat notti in cui scoprire la bellezza soprattutto dove non la si aspetta, da un lato. E sulla scoperta e la paura, il gusto dell’ignoto e l’abitudine al nascondimento, che alimenta per sua natura il gusto della trasgressione, di chi lo stesso amore, quaranta, cinquant’anni fa, forse meno o invece di più, lo cercava tra le fratte di un parco cittadino, dentro a un impermeabile e infagottato in completi da uomo fatto. Nello spazio – programmaticamente nudo, cancellata ogni distrazione e ogni appiglio, di una sala d’aspetto di un centro analisi per l’HIV – si incontrano due vissuti che sono anche due posture verso il mondo, poetico e crudele allo stesso tempo e inscindibilmente.

Il lavoro di Nicola Russo segue la traccia aperta con Anatomia comparata, con cui Acanto condivide un tocco lirico e tenero prestato alla volontà di dar voce alle pieghe – complesse – dell’animo, peculiari di chi è abituato a sapersi – ancora – minoranza eppure universali come sono le prese di coscienza delle proprie umanissime fragilità e con le contraddizioni, non ancora del tutto rimosse. La vergogna confidata alla prima battuta e l’orgoglio segreto che si legge nelle parole di chi ritorna al momento irripetibile delle prime volte, in cui si scopre anche proprio malgrado, il desiderio, il sesso e le ragioni insondabili dell’erotismo. Non è forse un caso se, dei molti responsi che questi due uomini potrebbero attendere, aspettano quello per la malattia che è stata a lungo considerata “la malattia dei gay”. Che non sia così vale sempre la pena puntualizzarlo, eppure la metafora può servire ancora a due uomini stretti nello stesso spazio di pavimenti ridicoli e sedie di plastica a scoprirsi simili. Russo riesce a mettere in scena il momento di limpida coscienza di quando ci si riconosce, ci si scopre e ci si rivendica dentro il pensiero e il sogno, mentre è sospeso il tempo del reale, che dovrebbe essere scandito dallo scorrere di numeri che sono una diagnosi dopo l’altra. E non potrebbe essere altrimenti: serve, come accade forse solo in attesa di un medico, uno spazio e un ritmo separato dalla vita, per due persone che si incontrano, se non fosse fermo, il tempo non basterebbe per prestarsi l’esistenza, per giocare a ricostruire, immaginandola, una memoria possibile, nutrita di un immaginario prestato dalle opere artistiche, dai film e dalle storie altrui che, come oggi si può fare parlando in una sala d’attesa e non più di nascosto, hanno fatto sentire meno sole le persone della comunità LGBTQ+.

Più che confrontarsi o confortarsi, nell’acume denso di simbolismi del lavoro di Russo, l’uomo e il ragazzo si trasformano a vicenda l’uno nell’altro, si specchiano fino a sovrapporsi, restituendosi a vicenda tutta la tridimensionalità che – a fondo scena, i video di Matteo Tora Cellini negano loro, per affidarla invece ai luoghi ricreati dalla memoria. Merito soprattutto di due protagonisti perfetti, che appaiono nati dentro le parole affidate loro. Se la freschezza vitale, sfuggente e un po’ guascona di Gabriele Graham Gasco rende molto bene il prototipo del giovane affacciato all’età adulta di cui, a ogni latitudine e in ogni tempo, è impossibile non subire la scanzonata fascinazione, la maturità di Alessandro Mor, di ritorno dal tempo delle videocassette nascoste e al Tuttocittà ha la profondità emotiva di un personaggio che molto ha elaborato, non solo vissuto, e la sussurrata dolcezza di chi è affezionato al ragazzo che è stato senza esserne rimasto imprigionato. Ne emerge l’impressione di una verità profonda che prende la forma di una confidenza condivisa con garbo con lo spettatore. Anche quando la magia della scoperta si rompe. La costruzione e ricostruzione del vissuto è aperta è franca: non intende rimuovere il dolore, le incertezze, le paure, i rischi che hanno reso ciascuno dei due la persona che si rende conto di essere.

E tuttavia – senza mai diventare retorici – entrambi conservano una purezza e un’autenticità che non riesce ad essere appiattita ma neppure sporcata dagli scarti bruschi del percorso, dalle droghe, dall’alcool, dalle violenze. Di fronte all’etichetta di squallido o banale, queste esistenze “deludono tutte e due le cose”. Vien da pensare a qualcosa di simile a quella vagheggiata da Pasolini portata fuori dalla povertà e dalle borgate. In questa sintesi raffinata si tengono insieme – in tutti i sensi – gli spazi e i corpi, come la vita, che è “tutto, non soltanto quel che tu decidi che è bello. Poesia e squallore” E imparato questo negli occhi dell’altro, si è pronti a ricevere l’idea che la malattia non è uno strappo, che l’irruzione di quel che ci fa paura non devia quanto si pensava. Non ci aiuterà a capire chi siamo, se già non lo sappiamo”. E chissà se davvero sappiamo qualcosa che non sia: “L’ho fatto per vivere, non per morire”, e se alla vita che ci accusa di aver perso l’innocenza possiamo rispondere, come ragazzi di ogni tempo “no, no, no. Io sono ancora innocente e lo sarò per sempre. Nonostante tutto. Anzi, grazie a tutto”.

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