E’ nella quindicina di titoli in corsa per l’Oscar al miglior film straniero il sorprendente “Amerikatsi” di Michael Goorjian. Si parte dal genocidio degli armeni per raccontare le tristi vicende di un rifugiato in America che nel 1948 torna nella sua patria ma viene arrestato dalla polizia sovietica come spia degli Usa. Lo picchiano e lo irridono, ma in un strano modo alla fine riuscirà a riscattarsi. Fra citazioni d’autore e momenti di denuncia civile, il film trova alla fine anche una sua felice vena poetica
In Armenia, che pure può vantare uno studio cinematografico già attivo oltre un secolo fa, si producono ogni anno un paio di film e a livello internazionale si può citare soprattutto un regista, Atom Egoyan, conosciuto e applaudito al Festival di Cannes, dove vinse il Premio Fipresci nel 1994 per Exotica e due anni dopo il Grand Prix della Giuria grazie a Il dolce domani. Quanto al tema dello sterminio del popolo armeno condotto dall’impero ottomano durante la Prima Guerra Mondiale (1915-1916, circa 3 milioni di morti stimati) se ne può sapere di più guardando Il ribelle dell’Anatolia di Elia Kazan (1963), La masseria delle allodole dei fratelli Taviani (1917) tratto dal best-seller letterario di Antonia Arslan e Ararat dello stesso Egoyan (2002). Il tema ritorna ora, con poche immagini di quella tragedia nel prologo, ma restando alla base di tutto il racconto, in Amerikatsi (2022), diretto e interpretato da Michael Goorjian, che rappresenta l’Armenia nella corsa all’Oscar al miglior film straniero ed è entrato, cosa questa insolita e interessante, nei quindici titoli della short list finale.
Charlie è riuscito a sfuggire da piccolo al genocidio nascosto in un baule diretto negli Stati Uniti, dov’è diventato un signore stimato. Ma quando nel 1948 Stalin decide una sorta di sanatoria accogliendo gli espatriati nei territori armeni dell’Urss, lui torna alla terra dov’è nato. Mal gliene incoglie. Sospettato di essere una spia anti-comunista americana è arrestato con l’accusa di venerare divinità straniere e di “indossare la cravatta”, condannato senza processo alcuno e rinchiuso in un carcere disumano a spaccare pietre da costruzione destinate a Mosca o ad altre città. Costretto all’isolamento per evitare di entrare in contatto con gli altri detenuti, da principio viene deriso e picchiato dalle guardie che lo chiamano Charlie Chaplin a mo’ di insulto.
Ma dalla bocca di lupo della sua cella, e qui inizia la seconda parte più lirica e piena di speranze del film, in contrapposizione con la prima di dura denuncia, può vedere il mondo e soprattutto la casa dell’uomo che lavora nella torre del penitenziario. Un evidente omaggio, anche per come è girato, all’hitchcockiano La finestra sul cortile. Prima per distrarsi dalla sua triste condizione, poi perché molto si immedesima in quell’umanità, lui osserva tutto ciò avviene nell’appartamento del suo carceriere, il quale più che il militare ha sempre sognato di fare il pittore. E per questo finisce per litigare con la moglie, che se ne va. Ma in qualche modo il prigioniero riesce a comunicare con lui e a “guidare” la sua felice riconquista della consorte, impresa che si conclude con la nascita di un bel bimbo.
Goorjian è nato a San Francisco e il suo tirocinio lo ha fatto in tv in America: ha vinto un Emmy nel 94 per la miniserie David’s Mother, è famoso per Cinque in famiglia, l’ha diretto Barry Levinson in The Wizard of Lies con De Niro. Al cinema il suo precedente più noto da attore/regista è Illusion (2004), ultima prova di un Kirk Douglas 88enne. In Amerikatsi, che ha anche scritto, ha il ruolo di Charlie, e grazie alla sua stralunata prova di interprete riesce a tenere in equilibrio il film sul difficile crinale che separa, ma anche accosta, sincera umanità (perfino dei suoi aguzzini) e violenza fisica e psicologica, cruda realtà e sogno. E memorie: della madre sorridente che ha visto solo da bimbo, della sua terra com’era quando lui era piccolo. Gli altri personaggi appaiono rielaborati nel suo sguardo. Bozzetti anche divertenti, coma il compagno di sventura che ogni giorno gli elenca qualcosa di fondamentale che hanno inventato nella storia gli armeni, dal vino alla birra. Sono reali ma anche fantasmi, fanno già in qualche modo parte dei suoi ricordi. A proposito: il film ha un happy-end, se questo può convincervi a andare a vederlo.
Charlie comunque, da buon americano acquisito, vuole cambiare i destini dei personaggi e quando marito e moglie sono in crisi li aiuta con un impulso, quello si, un po’ charlottiano. Il genocidio armeno resta sempre alla base di Amerikasi ma il film di Goorjan è più in generale un grido di protesta contro la dittatura, e un inno alla libertà che si può trovare persino nella più alienante delle prigioni. Per tutto questo si può perdonargli la deformazione grottesca e un po’ greve di più di un carattere e anche qualche metafora un po’ insistita. Ma il fin troppo frequente volo degli uccelli, peraltro elegantissimi, ricorda ai detenuti che fuori di lì c’è un mondo che forse prima o poi rivedranno. Ed è un’altra citazione, di uno dei più bei film pacifisti (e sovietici) del dopoguerra, Quando volano le cicogne di Mikhail Kalatozov.
Amerikatsi di e con Michael Goorjian e con Hovik Keuchkerian, Nelli Uvarova, Marine Grigoryan, Mikhail Trukhin, Lean-Pierre Nshanian, Aram Karakhanyan