Raccontare in modo tridimensionale il pensiero e la parola di un autore: interrogarlo a distanza, entrare nel suo mondo, tastarne (in prospettiva) la traiettoria. È questa l’idea che ha guidato il Museo Hesse nell’allestimento della mostra che racconta la storia di un grande rilancio editoriale: quello che Volker Michels operò nei confronti dello scrittore. Un percorso espositivo denso e stimolante: chiude il 2 febbraio, e merita.
Se sono tornato tre volte a visitare la mostra che il Museo Hesse ha dedicato a Volker Michels, è perché sono rimasto colpito dalla linearità della storia d’amore che vi è esposta.
Nella Germania del dopoguerra un ragazzo scrive una lettera a una grande autore che abita in Svizzera : il ragazzo non sa neppure dove si trovi quel luogo, Montagnola. Gli chiede, gradualmente, consigli sulle sue prove poetiche, come usava fare un secolo prima. Attraverso questa scintilla prende fuoco una conoscenza e quando i tempi saranno maturi, quando Siddharta diventerà il libro dei ragazzi che dalla West Coast contestano la leva obbligatoria per combattere in Vietnam, quel ragazzo diventato un giovane uomo inizierà un’operazione di rilancio editoriale di Hermann Hesse che non è mai terminata.
Le ristampe, le antologie, le riedizioni, le pubblicazioni dei carteggi, le opere complete.
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Marcel Henry e Céline Burget hanno avuto il merito di far conoscere, e di mettere in scena, un rapporto che travalica il confronto generazionale e culturale per avvicinarci a quei momenti di eros che illuminano le cose.
Hitchcock è rinato attraverso Truffaut perché il giovane regista francese ha dato fiducia al suo grande maestro e ha dato a noi le chiavi per leggerlo attraverso la famosa intervista.
Michels racconta nella mostra la storia del suo rapporto con Hesse, come persona, come autore e per quello che è del suo lascito letterario.
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Ma l’operazione riesce perché Henry e Burget hanno voluto “farci vedere” Michels, mentre parla di Hesse, e l’hanno fatto attraverso una logica precisa.
Se il visitatore avesse trovato un monitor con una video intervista, difficilmente si sarebbe centrata la soglia di attenzione. La mostra propone invece una serie di piccole installazioni costituite da coppie di schermi a grandezza quasi naturale : in uno Michels risponde in tedesco, nell’altra un ragazzo o una ragazza fanno domande in italiano o in tedesco.
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Al di là dell’alternanza linguistica, che è sciolta nei sottotitoli, quello che ci accoglie è la possibilità del doppio sguardo, come se ognuno di noi fosse regredito all’area dell’adolescenza, dell’incertezza, e proponesse le proprie curiosità a un uomo più maturo che non solo non si sottrae al confronto, ma ci fa entrare nel racconto della sua esperienza attraverso un sorriso.
Michels è “simpatico” perché è empatico, forse – se posso azzardare – è più simpatico con noi di quanto lo sia stato Hesse con lui. Ancora più alla mano, perché Michels sta “raccontando” una storia lontana, non la sta vivendo in tempo reale.
Questo dialogo dinamico, che attraversa la storia della ricostruzione germanica, che mette in un confronto spesso impietoso Hesse con Brecht (o con Hermann Broch), apre uno sguardo retrospettivo che non avrei mai immaginato.
Hesse nel suo giardino lontano dalle forme dell’impegno sociale sentite come univoche (“eskapistich”) ; Hesse, magari, travolto dai lieder sublimi di Richard Strauss e messo, paradossalmente, nell’ombra di un vecchio musicista che si era smarrito nell’identificazione con la politica culturale nazionalsocialista.
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Tutto questo si vede attraverso la copertina famosa dello “Spiegel” che metteva sotto accusa Hesse ,“il poeta”, nel 1958, si vede attraverso le copertine dei libri sminuzzati e rimontati con amore da Michels (solo per citarne uno, il progetto dell’antologia dei testi di Hesse sulle nuvole), si vede attraverso le copertine dei vinili messe a confronto con Michels che dallo schermo le ascolta in cuffia.
E sorride.
Michels non è l’unico hessiano – altri, di grande qualità, collaborano col museo di Montagnola – ma Marcel Henry ha capito, come ho già scritto altrove, di essersi assunto un compito grande : far “vedere” uno scrittore , spostare sul piano della visibilità la qualità dell’invenzione di Hesse (che è persuasiva al massimo grado, tanto che l’autore diventa in breve tempo il “compagno più grande” per tutti) comporta tappe che possono rivelarsi insidiose.
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Hesse acquarellista è stato un alibi simpatico, nella misura in cui Hesse dipingeva a scopo di autoterapia e in pari tempo acquisiva un dialogo con la visività che gli era contemporanea.
Le sue vedute ticinesi però non esauriscono, anzi confesso che sembrano impari rispetto alla chiarezza contenuta nella sua letteratura, perché quest’ultima è in grado di evocare e di rendere partecipi di tutto un insieme di segnali che assorbono il fatto descrittivo per sostanziarlo in un ritmo asciutto e difficilmente eguagliato.
Di qui, forse, la scelta di una proposta visiva che nelle sue varie forme procede per momenti decostruttivi (una performance, un advertising), non sempre evidenti nei collegamenti, ma sempre ancorati al desiderio di approfondire il rapporto col segno scritto nel senso più lato del termine.
Una specie di riscontro con l’ an – alfabeta che c’è, fortunatamente, in noi.