Riccardo Chailly alla Scala inaugura la stagione della Filarmonica con la sinfonia più impegnativa del compositore austriaco. Incontro vincente anche grazie all’apporto decisivo dei solisti dell’orchestra
La forza del destino di Verdi e la Settima di Mahler possono dire la stessa cosa? Sì, se a distanza ravvicinata concorrono a dimostrare che un teatro e la sua orchestra sono “organismi ben disposti” (copyright Massimo Mila, a proposito delle Stagioni di Vivaldi). Il vitale trait-d’union di questa strana coppia è Riccardo Chailly, che nel giro di un mese, dal 7 dicembre al 27 gennaio, su due “diversità” apparentemente inconciliabili ha guidato le forze artistiche della Scala a due risultati “da Scala”, come piace dire al Piermarini e dintorni.
Dopo Verdi, anche l’apertura di stagione della Filarmonica è da medaglia. Soprattutto perché delle nove sinfonie composte da Gustav Mahler nella sua non lunghissima vita (1860-1911) – dovremmo dire dieci perché Chailly crede molto nella Decima ricostruita da Deryck Cooke – la Settima è forse la più temuta. Anche l’Ottava impensierisce molto, ma più per le sue colossali dimensioni, mentre non c’è studioso, musicista o ascoltatore che non sia d’accordo nel definire la Sinfonia n.7 in mi minore la più intricata, problematica e ardua tra le mahleriane. Una pagina che Chailly e la Filarmonica hanno scelto come materia “dimostrativa” nel miglior senso del termine: di compattezza, di coesione, di forza, di elasticità, di qualità solistica.
In un’ora e venti di musica la Settima squaderna una quantità di materiali non solo diversi, ma in contrasto fra loro, che impressiona. Il primo movimento, Langsam. Allegro, ti aggredisce con un accumulo di temi, motivi, soggetti, moduli, tempi, timbri, colori in cui è francamente difficile ricordare un direttore che, nella storia, ne sia venuto a capo con chiarezza. Forse, come suggerisce Angelo Foletto, è proprio questo che Mahler voleva: lasciar correre quel magma senza metterci ordine.
Il “Blob” del primo movimento sembra ideato apposta per introdurre a sbalzo i tre movimenti interni (di cinque) che invece una direzione ce l’hanno, ciascuno diversa (anche più d’una), modellata, complicata da soluzioni strumentali in continuo svariare da una battuta all’altra. Materia che chiede controllo assoluto, direzione meticolosa, dopo un lavoro di concertazione pesante che Chailly e la Filarmonica hanno affrontato con un giro di prove particolarmente stretto. Eppure, in un organico per l’occasione ampliato con un grande numero di aggiunti, di facce nuove, di giovani, dava soddisfazione gustare ben timbrati e a registro certi solismi che Mahler disegna quasi sadicamente impervi e fulminanti.
Mahler sadico? Giudicate voi: “Quando voglio produrre una nota dolce o trattenuta – prescriveva -, non voglio che sia suonata da uno strumento che la realizza facilmente, ma da uno che l’ottiene con grande sforzo… spesso superando i suoi limiti naturali”. Boulez parlava di una “perseveranza nell’estensione dei limiti” che lo allontanava dal tardo romanticismo per farlo “partecipare al futuro”.
Tutto vero, anche se bisognerebbe avere il coraggio di confessare che il quinto movimento, un paradossale Rondò quasi anamorfico, nella foga di giungere a un Finale “logico”, alla “reductio ad unum” di tante forze centrifughe, è anche un quarto d’ora di musica con tocchi di retorica e qualche umorismo involontario, riscattati però da correzioni, immancabili in Mahler, come i rumorismi di lastre metalliche che sarebbero piaciuti all’Avanguardia prossima ventura.
La Filarmonica esce vincente nel suo insieme e anche (cosa più rara) nei suoi solisti. Per parte sua, con questa Settima di un autore coltivato fin dagli anni al Concertgebouw di Amsterdam – dove poteva mettere gli occhi sulle partiture annotate da Willem Mengelberg, ovvero anche da Mahler – Riccardo Chailly stringe i fili che lo legano all’orchestra e al teatro. Sollecitando la domanda di attualità: fino a quando?
Last but not least: è davvero così divaricato, Mahler, dalla sfera di attività che caratterizza un teatro come la Scala? Una pagina di musica assoluta come la Settima suggerisce il contrario. Ernst Krenek (1900-1991) aveva buoni motivi per chiarire le idee a tutti. “Non può meravigliarci il fatto che Mahler si sia tuffato nella carriera teatrale – scriveva Krenek – nonostante gli interminabili fastidi che essa gli procurava… All’apice della sua carriera, in quei gloriosi dieci anni a Vienna, egli non era soltanto responsabile della parte musicale, direzione dell’orchestra e supervisione dei cantanti; era l’animatore di tutto: produttore, regista, disegnatore, per quanto assistito da eminenti esperti negli aspetti non musicali. Come può accadere che un artista di così totalizzante talento teatrale non sia mai stato tentato dal creare lavori per il mezzo magico del palcoscenico?”.
Infatti non se ne allontanò mai. Nelle sue sinfonie – cosa nota – scorre un teatro sommerso. Nella sua scrittura s’inseguono cambi di passo, di ritmo, di clima, di suono, di voci che sono del teatro con la sua imprevedibilità, legata alla velocità della parola, all’instabile rapporto tra i personaggi. Come nella vita.
Tutto questo mette il risultato musicale raggiunto di Chailly e dall’orchestra della Scala in sintonia con la sua storia: nel 1982 Claudio Abbado fondò la Filarmonica sul modello dei Wiener Philharmoniker, che sono un’orchestra di teatro (la Staatsoper di Vienna), con lo scopo di coltivare quella doppia dimensione teatro/musica pura che non sottrae nulla a ciascuno e arricchisce entrambi. L’obiettivo è sempre quello.