Una gita a Borgosansepolcro tra Piero della Francesca e Alberto Burri. Ovvero perché una piccola, ignorata mostra può essere un evento straordinario
Spesso si vedono, nei musei di arte antica, opere contemporanee che tagliano i fili del percorso espositivo. L’intento è quello di essere provocatori, di rompere gli schemi, di reinterpretare in modo ardito l’eredità del passato. In realtà, in molti casi, questi allestimenti finiscono solo per essere pietosi pout-pourri, in cui le opere degli artisti contemporanei stonano verso il cattivo gusto, inserendosi con prepotente ignoranza nella trama sottile delle storie dell’arte, di cui palesemente, però, non riescono a cogliere il senso.
Qualcosa di diverso è accaduto a Sansepolcro, nel piccolo Museo Civico. E ci dispiace poterne parlare solo ora, a mostra chiusa, ma siamo arrivati nel piccolo borgo aretino troppo tardi per contribuire, nel nostro piccolo, a spargere la voce. Tuttavia, l’occasione è ghiotta per una breve – speriamo non troppo pedante – riflessione.
A Borgo Sansepolcro quei pochi che ci vanno, ci vanno o per il ragù di cinghiale o per Piero della Francesca, che lì è nato, tanto da guadagnarsi il nome vasariano di Piero del Borgo. Consigliamo, in realtà, di andare sia per il ragù che per gli affreschi (siamo contro i manicheismi culturali). Una volta riempito lo stomaco, l’incedere sarà un po’ rallentato tra le sale del raccolto Museo Civico, che sfoggia alcune tra le opere più straordinarie di Piero, rimaste in loco per mezzo millennio: il Polittico della Misericordia, il San Ludovico, il San Giuliano, e la Resurrezione. Un po’ di lentezza, però, non può che far bene, in certi casi.
Negli ultimi mesi, a sorpresa, tra le due sale in cui si raccolgono questi highlights (ma il museo è bellissimo anche per tutto il resto che contiene: Pontormo, Matteo di Giovanni, Santi di Tito, e tanto altro), tra le due sale pierfrancescane – dicevamo – si trovavano quattro opere di Alberto Burri.
L’accostamento ad alcuni potrà sembrare ardito, ad altri canonico; alcuni grideranno allo scandalo, altri non ne capiranno il senso.
Burri veniva da queste stesse terre dell’alta valle del Tevere. Ma la vicinanza non è solo geografica. Da soli, dentro questo straordinario angolo di paradiso museale, con il silenzio dei nostri passi che echeggiano tra le volte, e il Polittico della Misericordia sfrondato di ogni protezione, tornato alla dimensione artigianale del legno delle tavole, nudo di fronte a noi, incominciamo con il notare che nei cretti di Burri si riflette la stessa craquelure della foglia d’oro stesa sulle tavole di Piero.
Man mano ci si rende conto, poi, di altri richiami. Le stesse sezioni auree congelano in un brivido di geometria divina le stesse semplici commozioni. (Tu chiamale, se vuoi, emozioni). A osservare i quadri di Piero, anche Alan Bennett si rendeva conto che il freddo mito del “genio matematico” crollava di fronte alla calda, intima semplicità di qualche particolare: un giovane in mutande bianche che si sfila una canottiera, un vecchio San Giuseppe che si tiene la gamba per un piede calloso… E qui, nella Resurrezione, i giovani soldati addormentati, a cui sta crescendo la barba del giorno prima, o gli occhi lacrimosi di un boia da dietro il cappuccio, che bucano la crosta uniforme del candore di Piero, trovano un’eco lontana nel calore che fonde la piatta, congelata uniformità delle superfici rosse, nelle linee dei cretti che frantumano l’apparente spietatezza del manicheismo tutto bianco / tutto nero, per creare infinite sfumature di grigio, per evitare che il Terzo sia sempre escluso. E si potrebbe continuare, e molto…
Viene il dubbio che Burri sia stato tanto grande anche perché ha saputo guardare, non in modo patinato e superficiale, non per riprese iconografiche, ma per senso profondo, a un grande artista come Piero. Ed è Burri stesso che ci guida lungo questa interpretazione del senso profondo dell’opera pierfrancescana.
Una mostra illuminante, insomma, per spiegare come si debbano cercare le corrispondenze tra l’arte del passato e quella del presente, e come l’una possa reciprocamente giovare all’altra. E allora si comprende anche che quando un artista contemporaneo non dimostra nessun interesse per l’arte del passato (nemmeno rifiutandola) – ebbene – il caso non è molto diverso da quello di un sedicente poeta che si scopre, però, essere analfabeta.
Dobbiamo ringraziare Bruno Corà per questa splendida mostra che, ancora una volta, ci fa capire che “Antico” è quello che noi vogliamo che lo sia. La cosa più importante dell’Antico è che è diverso da noi. Ma leggendo e guardando cose antiche, noi ci caliamo in un mondo, molto lontano dal nostro, e cerchiamo di comprenderlo. Questa è la migliore ginnastica mentale per vivere in un mondo ultramoderno e multiculturale. E – diciamolo – nel non capire questo sta la miopia di chi vorrebbe tagliare le ore di latino e greco nei licei per aumentare quelle – più “moderne”, sì – di informatica o economia…
Quello che si legge in filigrana a Borgo Sansepolcro, insomma, è un modo di intendere la cultura e la storia. Si possono guardare due mondi uguali e diversi, che, a cinquecento anni di distanza, si specchiano uno nell’altro, si intrecciano amorosamente come eliche del DNA, ma, con cristallina discrezione, non si toccano mai. Si sfiorano soltanto, perché toccarsi, per due artisti così, sarebbe significato distruggersi.
Foto: Piero della Francesca, Resurrezione (part.), 1465