La Valchiria dimezzata

In Musica

Calvinianamente parlando del secondo atto della Tetralogia wagneriana in scena alla Scala. Sul podio Simone Young lascia affiorare i “motivi” dell’orchestra con una direzione lucida e impetuosa. La regia di David McVicar ha qualche soluzione simbolica interessante ma la “Cavalcata delle Valchirie” scivola in un irritante umorismo involontario

Con la ventiquattresima Valchiria, se ho contato bene, la Scala ha avviato la decima Tetralogia della sua storia. Sono molte? Sono poche? Non contano i numeri, si dice, ma un teatro d’Opera che abbia pur Verdi nel suo Dna non può lasciare Wagner a lungo nel cassetto: ne va del suo prestigio e della sua salute. Le quattro opere dell’Anello del Nibelungo sono la santificazione di quel che intendiamo come Teatro Musicale, ieri oggi e domani. Evitarle o centellinarle è da vigliacchi e fa male all’orchestra, alle masse artistiche, ai laboratori, alle sarte, ai tecnici, al palcoscenico, alla macchina scenica, al pubblico e anche ai muri.

L’ultimo Der Ring des Nibelungen (sì, in tedesco, come ogni tanto s’accorgono con terrore gli spettatori più sventurati) risale al giugno del 2013, con Daniel Barenboim e la regia di Guy Cassiers. L’intervallo di tempo è ragionevole, quasi fisiologico. Ma passiamo all’avverbio più rischioso: il Come

Die Walküre non è la prima opera del Ring, ma dopo aver assistito al prologo, Das Rheingold (L’oro del Reno), debutto sia per la direttrice Simone Young sia per la regia di David McVicar, sono nati pensieri tristissimi sul seguito di un progetto che, come dodici anni fa, è destinato a coronarsi in una doppia sequenza di repliche ravvicinate: le quattro opere una di seguito all’altra, a giorni alterni, in due settimane contigue. In questo la Scala “di Meyer” replica quella “di Lissner”, che avendo in casa uno dei più grandi direttori “tedeschi”, riuscì a raccogliere due sold out di pubblico per quasi metà straniero su un pacchetto Wagner alla “Scala Milano” (evento quello sì per la prima volta nella storia). 

Alla seconda delle sei recite, Die Walküre ci ha fatto tirare un respiro di sollievo. Non due. La parte musicale si è sciolta in un flusso pulito e a tratti perfino abbagliante, con un’orchestra della Scala al meglio. Simone Young, che dirige Wagner anche a casa sua (di Wagner), è apparsa non dico irriconoscibile ma trasformata rispetto a Das Rheingold: un altro passo, una concertazione più lucida, una direzione più impegnata e impetuosa. Evidentemente era saltata in sella a un cavallo non ancora pronto. Doveva aspettare la Valchirie.

Simone Young accumula in linee precise i motivi che l’orchestra associa a situazioni, personaggi, annunci, avvertimenti; li lascia affiorare nei diversi livelli di percezione e nei differenti colori strumentali che Wagner governa da psicologo dell’ascolto, attirandoci senza scampo nel suo pensiero musicale.

La chiave interpretativa? Mah, sono cose che su Wagner lasciano il tempo che trovano: Simone Young rende leggibile Die Walküre dall’inizio alla fine. Di questo il pubblico è grato e l’applaude come vera protagonista, quasi più dei cantanti, che comunque reggono le loro parti con buona materia (quasi tutti) e consapevolezza del ruolo (tutti). 

Anche vocalmente l’opera parte bene fin dall’inizio con il Siegmund di Klaus Florian Vogt, tenore pieno, sicuro, e la Sieglinde accorata di Elza van den Heever: i due cantanti forse meglio “torniti”. Michael Volle, che da una vita “è” Wotan, domina l’intero secondo atto con il lungo assolo di canto-parlato con cui Wagner disegna ogni grado delle motivazioni psico-filosofiche che muovono il signore degli dei a tradire sé stesso e a scavare il solco fra umanità e Walhalla fino all’inevitabile crepuscolo del mondo (degli dei) che ha egli stesso costruito. Le note alte non son più quelle, ma nel grande duetto con Brünnhilde, la figlia dell’amore e del dissenso, Volle sa quali corde toccare per descrivere Wotan, il “signore delle stragi”, che ridiventa padre. Ha ragione il pubblico a tributargli un trionfo che non oscura il successo di Camilla Nylund per l’intensità della sua Brünnhilde e di Okka von der Damerau per la granitica pervicacia della sua Fricka; né delle otto sanguigne Valchirie (Caroline Wenborne, Olga Bezsmertna, Stephanie Houtzeel, Freya Apffelstaetdt, Kathleen O’Mara, Virginie Verrez, Eglé Wyss, Eva Vogel).

Il secondo respiro di sollievo purtroppo è solo un sospirino: rispetto a Das Rheingold, la regia di David McVicar ha qualche sprazzo più ispirato (il duetto Wotan-Brünnhilde con padre e figlia schiena contro schiena, che si sfiorano, si respingono, si cercano, si abbracciano) e qualche soluzione scenico-simbolica più interessante (la montagna di Brünnhilde ch’è una grande maschera mortuaria di Wotan-Wagner, o forse più Wagner-Wotan, coricata sulla scena e poi aperta ad accogliere, come un cranio spaccato, la figlia punita nel lungo sonno di fuoco, in attesa di Sigfrido, figlio di Siegmund e Sieglinde, il puro, il Principe Myškin con la spada che l’Idiota di Dostoevskij non poteva stringere).

Purtroppo la soluzione alla Cavalcata delle Valchirie d’inizio atto terzo, luogo tra i più retorici di Wagner sì, ma anche topico e “necessario”, è terribile: gli otto mimi in cavallucci metallici stilizzati, imbragati come in paralimpiadi, saranno anche un tentativo di sdrammatizzare uno dei luoghi più consumati di Wagner (compresa la voglia di invadere la Polonia di Woody Allen), ma il modo in cui è risolta, in un ossessivo e rumoroso sgambettare, ha qualcosa che scivola in un fastidioso umorismo involontario.

Le proiezioni di Katy Tucker sono belle, ma non bastano a imprimere personalità e riconoscibilità allo spettacolo di McVicar: in Wagner tutto è stato osato. Le giovani e scanzonate Hannah Postlethwaite (scene) ed Emma Kingsbury (costumi) obbediscono con disciplina a McVicar. Ma, a eccezione di alcuni colpi di luce, anche Die Walküre non è uno spettacolo che sorprenda, conquisti, sveli, “interpreti” quel dialogo tra Cielo e Terra che la Tetralogia racconta con una folla di messaggi e di simboli a volte indistricabili ma riferiti alla vita di ogni tempo, di ogni luogo, di ogni cultura, da ovest a est. (Brünnhilde impone a Sieglinde di fuggire “a oriente” per trovare rifugio e generare Sigfrido. Nel Parsifal prossimo venturo, l’Arabia è citata più di venti volte. Niente in Wagner è casuale).  Nelle recite del 15, 20 e 23, Simone Young passerà la bacchetta ad Alexander Soddy, e tutto lascia pensare che la direzione musicale non ne soffrirà.  
Riassunto: un respiro di sollievo ma non due, per una Valchiria calvinianamente dimezzata.

Foto: Brescia e Amisano ©Teatro alla Scala

Teatro alla Scala di Milano. Richard Wagner Die Walküre. Dirige Simone Young, regia di David McVicar (Repliche: 12, 15, 20, 23 febbraio)

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