Il dottor Freud sulle scale di casa. Andrea Bajani, “L’anniversario”

In Letteratura

La famiglia degli anni Settanta e l’infelicità presente. Il patriarcato interiorizzato dalla madre, il mistero del tempo della fondazione. La lacerazione come salvezza. In un tempo di crisi profonda, il Natale è l’inconfessato detonatore del malessere collettivo, e sul filo di un telefono la terapia è l’ultimo baluardo per salvarsi da sé stessi. Nel nuovo romanzo di Andrea Bajani, pubblicato da Feltrinelli, una indagine – nuda – dentro i meccanismi di una famiglia “normale”. Con buona pace della supposta tradizione.

Se uno è, nel nuovo romanzo di Andrea Bajani, il luogo in cui accade tutto quello che fisicamente non si vede, quello è la tromba delle scale.
È proprio questo, dentro L’anniversario (pubblicato da Feltrinelli), lo spazio di transizione, il paesaggio prevalente, la quinta da cui si alza la voce narrante nel suo andare e venire tra presente, ricordi, ricostruzioni e proiezioni.

Luogo simbolico, certo (di memoria biblica, ma anche orfica e mistica, e naturalmente psicologica), la scala è punto di unione e di passaggio, di ascesi e di tensione, però suggerisce parimenti memorie di catabasi: agli inferi scendono – con difformi risultati – Ištar e Odisseo, il Cristo dei Vangeli apocrifi ed Enea; e perfino Dante, nel suo andare con un piede più alto e uno più basso per il poggio oltre la selva, ripercorre il topos letterario della scala che unisce mondi e dimensioni.
Solo che, in questo caso, il più moderno inferno sta in alto, è ammantato di urbanità, ha addirittura la sicurezza affermativa di un nucleo di esistenze che ostentano la routine ordinaria di tanti: le parole crociate, le vacanze a tempo debito, l’andamento dei figli a scuola, la cena in tavola e l’installazione del telefono. 

Per questo, nel romanzo di Andrea Bajani, la tromba delle scale non è solo un simbolo: è proprio il correlativo emotivo che identifica, fin dalla copertina, la ragnatela interiore nella quale si trova avviluppata la voce narrante – quella di un uomo che ha passato la quarantina e si ritrova (in una versione del mezzo del cammin di nostra vita aggiornata alle aspettative demografiche attuali) a riavvolgere il nastro della propria esistenza dentro un asciuttissimo e incandescente canto di attesa, di attraversamento, di resa al peso della soglia di casa.
In quello spazio di risulta ogni cosa accade: l’angoscia dell’indugio davanti alla porta dell’appartamento, il sollievo degli scalini in discesa verso una libertà (provvisoria, o meno), la necessità del distacco (ovvero, della sopravvivenza), e l’ordine interiore all’obbediente ritorno nei ranghi.

Così, mano a mano che la consapevolezza degli accadimenti interiori riemerge, è proprio sulle scale che si compie il miracolo della ri-composizione di sé.

“Si possono abbandonare i propri genitori? O meglio, ci si può sottrarre a loro, semplicemente togliendo il proprio corpo di mezzo con un gesto netto e definitivo? E condannarli a vivere il resto dei propri giorni, per così dire, con un arto fantasma? Non è una risposta che si possa dare in maniera affermativa. Si può solo fare, e io lo feci, con quella ponderatezza definitiva che solo l’istinto consente, perché la ragione, impaurita, altrimenti arretrerebbe”

Dunque il tema è, esattamente, questo: la lacerazione. Uno strappo che arriva dopo una meticolosa discesa dentro di sé: ogni volta che il corpo sale all’appartamento dei genitori – quella che fu casa, che è ancora casa, ma che è stata ferocemente (e forse mai) casa – la mente scende un gradino in più nella storia familiare, nel tentativo abnorme di restituire pesi e ruoli al sistema gerarchico dentro al quale la vita di un figlio è stata concepita e allevata ed educata.

Da subito, il padre occupa ogni luogo: lo spazio intero, e gli spazi possibili (tutti). Ha lui il controllo economico (la breve stagione in cui la madre si impunta per andare a lavorare viene rapidamente liquidata come una bizzarria, o un incomprensibile capriccio), suo è il marchio che regola i comportamenti e le scelte, a lui appartiene lo scettro dell’importanza (e, di conseguenza, il decreto che delegittima, e ridimensiona, la figura materna).

“Lui voleva che lei fosse niente per potere, lui, essere qualcosa. Il che forse più che un fraintendimento fu, in qualche maniera, un patto mai espresso, il loro segreto. Il risultato fu che lei si annullò per davvero, e che lui, con quel niente seduto sul divano, impilò astio, disprezzo e disperazione allo stesso modo in cui settimana dopo settimana si impilavano sul tavolo le parole crociate, che sarebbero poi finite dentro il secchio dell’immondizia”

Compare, dentro L’Anniversario, un assunto su cui Andrea Bajani aveva già iniziato a scavare nel suo libro precedente, Il libro delle case (un articolo si trova qui): ovvero come accada che lo spazio abitato da una famiglia contenga sì la vicinanza dei corpi, ma spesso, e brutalmente, anche la lontananza delle volontà e del sentire – fino a diventare luogo di costrizione.

Così, in questo romanzo, la figura paterna diventa il perno su cui si imbullona il sentimento della paura, utilizzata sottilmente e sempre possibile, minacciata o velata, rimossa e poi all’improvviso fatta deflagrare in reazioni spropositate: una paura che tiene ostaggi, mantiene alto uno stato di tensione perenne sottopelle, e muta la violenza fisica in condizionante maltrattamento psicologico.

“… una costellazione di accessi d’ira (…) l’evidenza di una disperazione, di un quadro psichico complesso, e di un retaggio fascista negato ma sostanziale nei comportamenti”

Il pranzo, la cena, l’utilizzo degli spazi e del tempo condivisi diventano l’agone nel quale ogni personaggio della famiglia (nessuno ha un nome) co-agiscono all’interno del nucleo familiare: la guerra aperta e solitaria ingaggiata dalla sorella, lo spasmodico tentativo di rabbonire ed evitare l’esplosione paterna del figlio, la resa della moglie che abdica dal suo ruolo di madre per sostanziare di sponda l’ossessione, il delirio, la ferocia del marito. Non occorrono le pistole: quando non sono le mani a colpire, sparano le parole, le espressioni della faccia, il non verbale – in una perenne opera di ridimensionamento altrui.

Ora, sarebbe stato già forte un romanzo in cui una figura paterna moderna (il tempo dell’infanzia e della adolescenza della voce narrante è collocato tra la metà degli anni Settanta e gli anni Novanta) viene tanto pacatamente sottoposta a denudamento, senza nulla risparmiare ai meccanismi agiti.
Quello che Andrea Bajani fa, però, è qualcosa di più scomodo: guarda alla coppia, alla diade che si ostina a richiedere alla prole misura ed equilibrio mentre mina dalle fondamenta ogni intima sicurezza.

Tanto fa l’ingombro paterno quanto, dunque, la sottrazione del materno: che vorrebbe ma non può, o non sa, o non vuole. Naufraga, la madre, dentro la neutralizzazione della propria femminilità, l’invisibilità del corpo, l’abbandono delle casuali amiche che non riescono mai a diventare tali (perché, nella loro diversità, divengono presto lo specchio nel quale la donna può vedere di riflesso la distanza della propria famiglia, la sua negata misura difforme).

Non ha strumenti, la madre allontanata dai propri legami familiari e dalla città nella quale avrebbe pur potuto avere (lei, la prima ad avere studiato più dei suoi stessi genitori) un futuro diverso. Le sue poche ribellioni sono abnormi e immediatamente colpevolizzate, il suo silenzio una obbedienza di sistema, la sua resa all’infelicità un mistero che rivela di sé lembi di atroce compiacimento. Non reagisce, la madre, mentre la violenza si scatena sui figli: eppure è presente. Semplicemente, guarda altrove.
E più il figlio interroga i motivi di quell’impronta alla sofferenza che continua a condizionare (anche da grande, ormai: da uomo, e sposato) la sua esistenza, più il quadro casalingo della sua formazione emotiva mostra le tinte di una costrizione perfettamente accettata, e integrata nel quadro sociale del tempo.

Non è, insomma, un bassofondo di periferia, quello in cui L’anniversario viene ambientato: non c’è possibilità di ventilare, anche con comodo e deterministicamente, qualche disagio.
Siamo invece in un normale palazzo di un contesto residenziale di una normale cittadina del Nord dove una normale famiglia ha costruito la sua normale quotidianità.

A voler scalfire l’opaca calotta di normalità presunta, almeno due sono le voragini (scrupolosamente coperte, e insabbiate nella mitologia della narrazione parentale) da cui la fonte della frustrazione ha iniziato ad abbeverarsi in un tempo remoto, in una era pre-familiare che però coincide anche con l’azione fondativa del nucleo: uno è l’atto di nascita del primo figlio, l’altro l’abbandono necessario della propria città.
Anche in questo caso, apparentemente, nulla di particolarmente tragico.
E però, al contrario, qualcosa di destabilizzante.
Come si decide di mettere al mondo una vita e quanto la migrazione cambi i connotati interiori sono i punti d’origine con cui ogni personaggio si ritroverà a fare i conti per tutta la propria esistenza.

È molto interessante pensare che il tempo in cui Andrea Bajani ambienta la vicenda della costruzione di questa profonda e ordinaria infelicità è, contemporaneamente, la medesima epoca in cui viene concepita e assorbita dall’immaginario collettivo una pubblicità che ha, nei successivi cinquant’anni, plasmato un paradigma solidissimo: gli anni Settanta e Ottanta sono quelli, infatti, in cui la società dei consumi propone mulini bianchi e tavolate sorridenti, e quell’icona di mercato diventa l’accettata rappresentazione di un mondo per definizione sicuro, armonioso, felice. Una forma che sovrappone convenzionalmente tradizione a garanzia. Ma, appunto, un (supposto) cliché.

Forse, dopo esserci nutriti per tutti questi decenni di merendine e biscotti, dopo avere assistito ad arrivi concordi di Babbi Natali dentro stanze cariche di letizia inscalfibile, è arrivato il momento cominciare a ragionare sull’impianto della famiglia concepito in quel tempo. Sulle sue radici, e sulle sue conseguenze. E forse non è un caso che molte voci della nostra letteratura (da Marta Barone, a Nicoletta Verna, qui, ad Andrea Bajani, ora) abbiano scelto come terreno di indagine esattamente questo.

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