Il lettore curioso: febbraio 2025

In Letteratura, poesia, Weekend

Le letture di questo mese ripropongono un grande della poesia novecentesca come Caproni, segnalano un autore imperdibile – Martin Pollack, – guardano alle uscite italiane tra romanzi e saggi

Marco Balzano, Bambino, Einaudi, 2024

Ilaria Tuti, Risplendo non brucio, Longanesi, 2024

È lunga una dittatura e oltre la vita feroce di Mattia Gregori, detto Bambino per il volto glabro. Triestino, fascista, picchiatore e killer, traditore di tutti, Bambino attraversa sotto il segno del Male tutti gli sconvolgimenti di quella zona di frontiera. Il “bambino” che cerca la madre mai conosciuta, il figlio del mite orologiaio antifascista che lo disapprova e si vergogna di lui ma non lo abbandona mai, e lo squadrista e capomanipolo che riempie di botte operai e contadini, di preferenza sloveni, convivono in una sola persona. Come convivono la violenza scelta come linea di condotta e l’impossibile ma struggente desiderio di innocenza, di un’altra vita. 
«Da anni avevo in mente di scrivere una storia sul confine orientale, perché nessun territorio come Trieste ha visto avvicendarsi con brutale violenza, e senza soluzione di continuità, fascismo, nazismo e – sebbene per poche settimane – regime comunista. Volevo che il protagonista fosse un uomo nato ai primi del secolo, cosicché attraversasse ogni periodo, caricandosi sulle spalle tutte le vicende di questa Storia da sempre incandescente. E volevo che finisse per affacciarsi su un abisso, non solo figurato, perché, forse, è a un passo dalla morte che si pronunciano le parole più importanti e che tornano davanti agli occhi le immagini più nitide» ha detto Marco Balzano per presentare il nuovo romanzo in cui, diversamente da Resto qui, protagonista non è una vittima ma un carnefice. 
Che umanità abita chi sceglie il male? Sotto il segno (morantiano) della Storia “scandalo che dura da diecimila anni”, “fatta con quanto c’è in noi di criminale” (Auden, posto in epigrafe al romanzo) scorrono le sopraffazioni di un regime che lascia mano libera agli assassini; la disillusione di una guerra cialtrona in Grecia e in Albania dove Bambino, volontario, vede crollare il castello di carte del fascismo; gli anni convulsi dell’occupazione nazista e di quella jugoslava in cui il protagonista, spinto da un feroce istinto di sopravvivenza, tradisce i fascisti, compila liste di nomi per i nazisti e poi per i titini. Fino ad andare incontro all’inevitabile fine: un abisso, una foiba. 
«Ho ucciso e fatto uccidere. Ho sempre cercato di stare dalla parte del più forte e mi sono sempre ritrovato dalla parte sbagliata». Un’esplorazione del male che diventa apologo del bene – tenace, concreto nel suo resistere disarmato al male – e dell’umana fragilità.

Trieste nel 1944 (e il castello di Kransberg, nell’Assia tedesca, rifugio di un Adolf Hitler sfuggito a un attentato e più che mai preda dei suoi fantasmi) sono lo sfondo anche del potente e vibrante thriller storico Risplendo non brucio di Ilaria Tuti, consacrata alla notorietà e alle classifiche con la serie dedicata al commissario Teresa Battaglia. Protagonisti sono qui un padre e una figlia divisi dalle atrocità della guerra e uniti da un imperativo categorico al Bene. Johann Maria Adami, luminare della medicina internato a Dachau come oppositore del nazismo e ridotto quasi a una larva, ne viene prelevato perché indaghi sull’ambigua morte di un SS del corpo di guardia: forse suicida, forse implicato in un complotto contro il führer. Sua figlia Ada, anch’essa medico e impegnata nella Resistenza, che in guerra ha perso il marito, non ha più notizie del padre e alleva in solitudine un figlio che ha nascosto agli sguardi di tutti, cerca di scoprire l’assassino di giovani donne che trova riparo nella Risiera di San Sabba dove si custodiscono gli ebrei da spedire nei lager e si passano per il camino gli oppositori. Riusciranno, padre e figlia, a fare chiarezza, rischiando la vita a ogni passo per non cedere al Male.

Marco Brando, Medi@evo. L’età di mezzo nei media italiani, Salerno, 2024

«Una falsa notizia nasce sempre da rappresentazioni collettive che preesistono alla sua nascita; essa solo apparentemente è fortuita…; ma questa messa in moto ha luogo di solito perché le immaginazioni sono già preparate e in silenzioso fermento… La falsa notizia è lo specchio in cui “la coscienza collettiva” contempla i propri lineamenti» scriveva nel 1921 il grande storico francese Marc Bloch.
È vero soprattutto per il Medioevo, rievocato come ricettacolo di barbarie oppure, in maniera uguale e contraria, come custode della Tradizione. Alzi la mano chi non ha usato, in una conversazione o in uno scritto, l’aggettivo “medievale” come sinonimo di “retrivo”. Temo, anzi sono certo, di averlo fatto anch’io.
Marco Brando, giornalista e storico, ha gioco facile nello smontare questo luogo comune.
Scorrete il delizioso abbecedario che innerva il suo volumetto: ce n’è per tutti i gusti. “Ceccano, acqua razionata: ritorno al Medioevo”; “La setta che voleva tornare al Medioevo”, e sarebbero gli ambientalisti; “Caccia: ritorno al Medioevo”; “Giugiaro sull’auto elettrica: dal Medioevo all’era moderna” (non contemporanea, magari? Anche chi titola gli articoli, sulle ere storiche, ha le idee confuse); “Cannabis, il mondo la legalizza mentre l’Italia torna al Medioevo” (ma la cannabis nel Medioevo era pianta medicinale: la condanna con la bolla Summis desiderantes nel 1484 papa Innocenzo VIII quando l’era di Mezzo è agli sgoccioli e Colombo sta per salpare con le sue caravelle); per non parlare degli articoli dedicati alla sessuofobia e agli strali contro i gay, tutti manifestazione di “spirito medievale” (ma nel Medioevo gli appetiti sessuali erano piuttosto robusti e l’omosessualità non era poi questo problema: ne hanno scritto con dovizia di particolari Chiara Frugoni e Alessandro Barbero).
Età di mezzo tra la beata classicità antica (altrettanto feroce e, assai più del Medioevo, schiavista) e le glorie dell’Umanesimo e del Rinascimento, il millennio che va per convenzione dal 476 al 1492 ha goduto a lungo di cattiva fama anche presso gli storici (ma da decenni lo stigma è scomparso), lasciandola oggi in eredità alla pubblicistica e al web.
I falsi storici dell’immaginario mass-medievale abbondano: ci sarebbero anche le ricostruzioni fiabesche e, oggi, fantasy. Tra le tante, la cintura di castità e lo ius primae noctis, mai esistite e non documentate dalle fonti d’epoca; la paura dell’anno mille che avrebbe portato la fine del mondo, altra invenzione; la barbarie dei barbari, alieni invasori che in realtà erano già latinizzati da secoli e formavano l’ossatura dell’esercito romano; il vandalismo dei vandali, inventato di sana pianta da Voltaire. E via elencando.
Il Medioevo “buono” viene buono per la pubblicità turistica, per le sagre le fiere e le rievocazioni in costume. Anche qui con invenzioni grossolane. La più divertente la riporta, abboccando all’amo, La Stampa: l’Antica Giostra del Pitu, cioè del tacchino, che si svolge a Tonco nel Monferrato, dove la povera bestia scappa (di recente, grazie alle proteste degli animalisti, è diventata di stoffa) e sette cavalieri cercano di decapitarla. Scrive il quotidiano torinese: «Siamo poco dopo l’anno Mille e nel borgo rurale sopravvivono antiche usanze pagane. Come quella di uccidere un tacchino in primavera per scacciare i mali e garantire un nuovo anno dal raccolto prospero e di pace». Peccato che il tacchino con il Medioevo non c’entri niente: arriva dal Messico, l’hanno portato in Europa gli spagnoli verso la fine del ‘500.
Il Medioevo viene buono anche per riscrivere la storia falsificandola: lo fanno i leghisti quando scelgono come loro simbolo l’immaginario Alberto da Giussano, invenzione trecentesca che non prese parte al giuramento di Pontida e non combatté la battaglia di Legnano del 1176 contro Federico Barbarossa. E quando, con Bossi, spingono perché venga realizzato un film flop (lo dirige nel 2009 Renzo Martinelli) che spreca 30 milioni di euro.
Di che cosa parliamo quando parliamo di Medioevo? Se si vuole insultare un avversario o condannare una decisione o un provvedimento sgradevole e sgradito, basterà dargli del “contemporaneo”. Da Trump a Putin, le pietre di paragone non mancano.

Giorgio Caproni, Poesie 1932-1986, Garzanti, 1989

Che guaio la cantabilità, che sciagura la rima (“che disgrazia l’ingegno” scriveva Griboedov). Cantabilità e “facilità” sono stati a lungo, e assieme, capo d’imputazione e motivo della fortuna di Giorgio Caproni (1912-1990), livornese di nascita, genovese di elezione, romano per residenza. Dare del cantabile a qualcuno, nel Novecento italiano delle parole alate e “orfiche”, del m’illumino d’immenso, era un po’ come dargli del posteggiatore, dello stornellatore: buono per le osterie e non per l’accademia. 
Oggi, posata la polvere dell’ermetismo (tra i grandissimi resta soltanto Mario Luzi, a mio gusto) si può tranquillamente dire che Giorgio Caproni è stato uno dei massimi poeti del nostro Novecento. Più complesso e a più strati di quanto la sua apparente semplicità lasciasse apparire, e tuttavia decifrabile a prima lettura (gli arricchimenti, e il senso riposto del suo poetare, arrivano con la frequentazione). “Poeta cordiale”, per usare una formula a me cara che fu coniata da Antonio Machado. Più aspro di quanto la sua melodicità dicesse d’acchito: e questo i critici più avveduti lo notarono subito, da De Robertis a Pasolini. Registrando, assieme alla perfezione quasi neoclassica di certi endecasillabi, di certi sonetti (penso ai Sonetti dell’anniversario, tra le sue prove giovanili degli anni ‘30, dedicati alla fidanzata e promessa sposa Olga Franzoni, uccisa da una setticemia fulminante), i troncamenti, le volute imperfezioni, le interruzioni, le rime interne, gli enjambement che rendevano assolutamente moderno, nell’apparente tradizionalismo, il suo timbro (e Caproni era stato violinista, prima che poeta). 
Questa ottima raccolta garzantiana antologizza l’opera di Caproni dal 1932 al 1986. La chiude una selezione di interventi di tutto rispetto (oltre ai nomi già detti, Calvino, Citati, Pampaloni e altri) tra i quali scelgo, per la sintetica esattezza dell’enunciato, quello di Giovanni Raboni. Per lui, i tre grandi temi della poesia di Caproni sono la città, la madre e il viaggio (si potrebbero aggiungere, aggiungo, anche la caccia come caccia a se stesso, e il confronto / rispecchiamento con un io / nemico). E questi tre temi «appaiono, nella vita reale dei singoli testi e del testo complessivo che ne risulta, così intrecciati, così ribaditi l’uno all’altro e l’uno nell’altro da formare, più che una successione, un anello di temi – o, se si vuole, un sistema di temi leggibili anche come sinonimi, o meglio come anagrammi, l’uno dell’altro, un po’ come nei vertiginosi giochi di simmetrie e di specchi usati nelle loro partiture dai polifonici della scuola fiamminga. È certo, comunque, che i tre temi hanno un comune denominatore, che è quello dell’esilio. Esilio dallo spazio (la città), dal tempo passato (la madre), dalla vita (il viaggio). Esilio dal quale, e del quale, il poeta ci parla per mezzo della “rondine” delle sue ballate, delle sue rime. E che fa dell’intera sua opera poetica (se vogliamo ricorrere a una formula) un grande, struggente e severo canzoniere d’esilio o, in altro senso, un ininterrotto diario di viaggio: viaggio nel tempo e nello spazio, viaggio nel nulla (nella nebbia, nell’Ade) ricordando la madre e la terra, viaggio nel tunnel dell’assenza di Dio assaporando l’amaro trionfo della sua scomparsa, viaggio nell’antimateria – nel non-spazio, non-tempo, non-luogo – capovolgendo (e al tempo stesso celebrando con raggelata e affettuosa ironia) gli appuntamenti, i riti, le “cerimonie” dell’ovvietà quotidiana». 
Poeta fratello, nostro simile e contemporaneo, nell’esilio e nello spaesamento (geografico, ma non solo; nel tramonto delle fedi, delle ideologie e delle narrazioni) che è nostra condizione comune. La città, le città: Livorno della nascita e dei primi anni, “matria” inattingibile e alla quale è impossibile fare ritorno, fissata in un bianco e nero elegiaco e funerario (si veda la bellissima e raggelante Scalo dei fiorentini). E Genova, “città amante” dalla quale è rapito e corrisposto, città abbandonata come la madre senza celare, come per la madre, lo struggimento e il senso di colpa. Genova che ispira versi vivissimi e sensuali, tra i quali converrà ricordare almeno la meravigliosa Litania (la si trova in Il passaggio di Enea 1943-1955): 

Genova mia città intera. 
Geranio. Polveriera. 
Genova di ferro e aria, 
mia lavagna, arenaria. 
Genova città pulita. 
Brezza e luce in salita. 
Genova verticale, 
vertigine, aria, scale. 
Genova nera e bianca. 
Cacumine. Distanza. 
Genova dove non vivo, 
mio nome, sostantivo. 
Genova mio rimario. 
Puerizia. Sillabario. 
Genova mia tradita, 
rimorso di tutta la vita… 

La madre, Anna Picchi, sartina e ricamatrice alla quale Caproni dedica un poemetto tra i più belli del Novecento, l’omaggio più tenero e intenso che la nostra letteratura recente abbia reso alla figura materna. Mandando, con una criptocitazione dalla ballatetta del Cavalcanti (l’esilio, eccolo) la sua anima in ricognizione nella Livorno d’inizio secolo, perché ritrovi Annina giovinetta e fidanzata e poi sposa allo scoppio della guerra. Sono i bellissimi Versi livornesi, per me il vertice della sua poesia, posti nella raccolta Il seme del piangere (1952-1958): 

Anima mia leggera 
va’ a Livorno, ti prego. 
E con la tua candela 
timida, di nottetempo 
fa’ un giro; e, se n’hai il tempo, 
perlustra e scruta, e scrivi 
se per caso Anna Picchi 
è ancor viva tra i vivi. 
Proprio quest’oggi torno, 
deluso, da Livorno. 
Ma tu, tanto più netta 
di me, la camicetta 
ricorderai, e il rubino 
di sangue, sul serpentino 
d’oro che lei portava 
sul petto, dove s’appannava. 
Anima mia, sii brava 
e va’ in cerca di lei. 
Tu sai cosa darei 
se la incontrassi per strada. 

La salvazione della memoria, il riscatto e l’espiazione, vogliono tutta riassunta la vita di Annina nella sua giovinezza. Per poi avviarla, con brusco cambiamento elegiaco, Ad portam inferi, verso una morte che – come spesso in Caproni, si vedano almeno il precedente Alba e il posteriore Congedo del viaggiatore cerimonioso – è viaggio, è treno, sala d’attesa, tavolino di bar, alba e nebbia: 

Chi avrebbe mai pensato, allora, 
di doverla incontrare 
un’alba (così sola 
e debole, e senza 
l’appoggio d’una parola) 
seduta in quella stazione, 
la mano sul tavolino 
freddo, ad aspettare 
l’ultima coincidenza 
per l’ultima destinazione?… 

La città, la madre, il viaggio. Che nelle raccolte poetiche dagli anni ‘60 in poi (da Il muro della terra a Il conte di Kevenhuller) si faranno esplorazione stoica del nulla. «Il verso di Caproni diviene quasi versicolo, dialoga ininterrottamente con il bianco della pagina, con il silenzio; e il suo dire si fa sempre più spoglio, asciutto, beffardo, alternando la secchezza dell’epigramma a lievi accenni musicali… L’assenza di Dio, il nulla della nostra umana condizione di transitanti forse già cancellati dal tempo, il paradosso di un’esistenza in cui preda e cacciatore si identificano, vissuti con un’amarezza che rifiuta ogni conforto, ogni possibile lusinga, disegnano per fasi e approssimazioni successive, anche per continui richiami e rimandi interni, le linee di una metafisica essenziale che si compie attraverso poche ricorrenti figure o immagini (il cacciatore, la corriera, l’osteria, il borgo) di un emblematico paesaggio astorico che incombe sul vuoto, o che è già esso stesso il vuoto» (Maurizio Cucchi). Eccoli, i bilanci di Arietta di rimpianto:

Ora dov’è, dov’è 
la bella compagnia 
d’allora – la gaia gente 
pronta a spartire il vino
(il cuore) e l’amicizia? 
Io non vedo più niente. 
Solo scempio e nequizia. 

Stemperati – ma non troppo – dal paradosso di Mentore.

Devi perseverare, 
usare buona pazienza. 
Ricordalo, se vuoi arrivare 
al punto di partenza. 

Ancora una tratta, l’ultima, in Disdetta:

E ora che avevo cominciato 
a capire il paesaggio: 
Si scende,” dice il capotreno. 
È finito il viaggio”.

Dopo? Nella Pensatina dell’antimetafisicante è così: 

Un’idea mi frulla 
scema come una rosa. 
Dopo di noi non c’è nulla. 
Nemmeno il nulla, 
che già sarebbe qualcosa. 

E in questo nulla (Professio)

Dio non c’è, 
ma non si vede. 
Non è una battuta: è 
una professione di fede. 

Da molti anni tengo come memento, come piccolo post-it poetico, la Cabaletta dello stregone benevolo:

Non chieder più. 
Nulla per te qui resta. 
Non sei della tribù. 
Hai sbagliato foresta. 

E mi attrezzo a durare ripetendomi le Parole (dopo l’esodo) dell’ultimo della Moglia:

Ma non m’arrendo. Ancora 
non ho perso me stesso. 
Non sono, con me stesso, 
ancora solo. 

Una poesia di Caproni manca, in questa raccolta. È Generalizzando, dal postumo Res amissa, che riassume la sua ferma elegia: 

Tutti riceviamo un dono. 
Poi, non ricordiamo più 
né da chi né che sia. 
Soltanto, ne conserviamo 
– pungente e senza condono – 
la spina della nostalgia.

Enrico Deaglio, C’era una volta in Italia. Gli anni Settanta, Feltrinelli, 2024

È come un tappeto volante che passa sulle nostre teste smemorate, come una successione vertiginosa di montagne russe questo capitolo secondo della serie C’era una volta in Italia, inaugurata nel 2023 con gli anni Sessanta, quando presente e futuro sembravano coincidere. Qui rispetto alla puntata precedente il materiale da antologizzare straripa, in 784 pagine di fatti tristissimi ma a volte anche lieti e addirittura esuberanti, di elenchi puntigliosi, di laicissime spoon river che ricordano le troppe vittime che il fiume di sangue di quegli anni portò con sé. Avverte Enrico Deaglio, che assieme a Ivan Carozzi e a un plotoncino di bravissimi collaboratori ha compiuto l’impresa: «A distanza di quasi mezzo secolo, di una cosa si può essere sicuri. Parlarne è difficile, ricordare è difficile, condividere è praticamente impossibile. Gli anni settanta danno ancora sui nervi a tutti. Dalla bomba (di piazza Fontana, ndr) erano passati appena nove anni, le cose avevano subito un’improvvisa accelerazione, tutta negativa. Com’era stato possibile? Le spiegazioni sono molteplici, il paese, ancora oggi, non fa che rinfacciarsi colpe, rancori, accuse; ma si può considerare anche che la nostra piccola penisola davvero allora si trovò in mezzo a una congiunzione astrale passata il più possibile inosservata. Non eravamo più soli, non facevamo più miracoli».
Sono gli anni in cui l’economia si finanziarizza, in cui l’aumento del prezzo del petrolio morde; gli anni dei cruentissimi colpi di stato in Cile e Argentina che avranno ricadute sulla nostra politica e, almeno per l’Argentina, burattinai anche italiani (Licio Gelli, non ancora personaggio pubblico, che alloggia nella sua P2 il gotha dei militari golpisti).
«In questo clima politico e forse sotto l’influsso di congiunzioni astrali che certo non potevamo contrastare, vivevamo, senza neanche saperlo bene, alla mercé di una brutale corrente dove denaro e richiesta di protezione dominarono la scena e nacquero stranezze linguistiche come il “compromesso storico”, le “convergenze parallele”, l’“Anonima sequestri”, si immaginarono il “sistema imperialistico delle multinazionali” o la “terza via”, si affermarono parole nuove come “assalto al palazzo”, “gambizzazione”, “pentiti e dissociati”, “ostaggi”, “trattativa” e “fermezza”, si cominciarono a stilare statistiche sul numero dei morti e su “chi aveva cominciato” e una diffusa paranoia, un senso di incubo continuo era quello con cui ci svegliavamo la mattina… La definizione con cui questo periodo della nostra vita è stato ricordato : “anni di piombo”, una sorta di ego te absolvo, appare generica, superficiale, ipocrita».
Ricordiamo, ci sembra di ricordare? Non tutto, soltanto in parte, ma i dettagli non sono a fuoco, paiono come avvolti dalla nebbia (con la nebbia, scomparsa come le lucciole e raccontata allora dai compiti dei bambini, si chiudono con un’impennata di lieve struggimento il libro e il decennio). Per questo è giusto mettere accadimenti e ricordi in fila: Deaglio e Carozzi lo fanno compilando una cronaca del decennio che è anche libro di storia, diario di bordo, album di pensieri immagini e foto (bellissime quelle di Mauro Galligani), citazioni e consigli per ulteriori letture, messe a punto e suggestioni lucide che ci portano a collegare territori pensati lontani, come un puzzle che tessera dopo tessera compone un ritratto.
Anni di piombo? Anche, se si getta tutto il peso sulla ferocia assieme assassina e grottesca, crudele e cialtrona, delle Brigate Rosse (Deaglio continua a chiederselo: perché uccisero Moro? Perché non trattarono, avendo condizioni favorevoli? Perché non seppero fare alcun uso – non diciamo politico, non era alla loro portata, ma neppure documentario – della gran messe di scritti che costituiva la “confessione” del presidente della Dc? Perché non registrarono gli interrogatori? Perché quelle carte in gran parte scomparvero?). Ma quelli furono, in parte rilevantissima, soprattutto anni di tritolo: di stragi, attentati sui treni, depistaggi e pezzi di stato che ispiravano e proteggevano gli attentatori, neofascisti che agivano alla luce del sole, impuniti e incoraggiati. Deaglio non tace niente, neanche della violenza diffusa di una sinistra andata a male. Ma ricorda e sottolinea la ricorrente voglia di stato autoritario che spezzasse le gambe ai movimenti e sbarrasse la strada ai comunisti – i tentati golpe di Borghese, Sogno, Spiazzi e Fumagalli – e le troppe cose che non tornano, nelle ricostruzioni.
Per esempio il “covo” brigatista di via Gradoli, a Roma. Nella via, una settantina di appartamenti appartenevano ai servizi segreti e hanno ospitato, nel tempo, spioni e malavitosi, per qualche tempo anche il terrorista nero Giusva Fioravanti. Per esempio la “prigione” di Moro in via Montalcini: a un centinaio di metri delle abitazioni dei capi della Banda della Magliana, addirittura confinante con la villa dove il mafioso Pippo Calò teneva riunioni e faceva festa con i suoi compari.
In quegli anni, alla violenza politica, si aggiunge un fenomeno tutto italiano: i sequestri di persona, 672 rapiti per un fatturato stimato in 500 miliardi di lire. Un fenomeno rimosso dagli studi storici e qui affrontato con puntiglioso dettaglio e addirittura con un inserto, una sorta di “libro nel libro”. «Le vittime furono industriali, commercianti, vip, persone sconosciute al fisco ma non al vicino di casa. Ideatori e protagonisti del “nuovo modello di sviluppo” furono Cosa Nostra, la camorra, la ‘ndrangheta, i banditi sardi e, in misura estremamente minore, le Brigate Rosse. Non esistono paragoni con nessun altro paese europeo; quel periodo realizzò nei fatti, per buona parte della borghesia italiana, quello che aveva immaginato nei suoi peggiori sogni: che arrivassero i comunisti e le portassero via i soldi. Era successo, ma non erano stati i comunisti. E lo stato, che così tanto si era impegnato a difenderla dai comunisti (Gladio, o Stay Behind, si chiamavano le sue organizzazioni militari all’uopo), si dimostrava completamente impotente a difendere il suo principale elettorato. In omaggio al surrealismo, vittime e sequestratori votavano tutti e due per la Democrazia Cristiana».
I soldi dei riscatti finiscono in parte nell’edilizia e irrobustiscono il traffico della droga. È di quegli anni l’arrivo dell’eroina a prezzi stracciati nelle piazze italiane: una strage silenziosa di giovani, non meno feroce degli attentati alle banche e ai treni. I profitti di importanti famiglie mafiose sono gestiti dal “salvatore della lira” (copyright by Giulio Andreotti) Michele Sindona, che fa eliminare da un killer avversari incorruttibili come l’avvocato Giorgio Ambrosoli (“Come si dice a Roma, quello se l’era andata cercando” commenterà anni dopo il Divo), mentre il suo protettore ispira l’unico colpo di stato riuscito in Italia: l’arresto dei vertici della Banca d’Italia, per sostituirli con tecnici più compiacenti. L’operazione non riesce, ma è stata tentata. Riesce invece l’eliminazione di un giornalista scomodo, Mino Pecorelli, che sui traffici di Andreotti sa molte cose che non dovrebbe sapere.
Gli anni settanta raccontati da Deaglio e Carozzi sono però anche tante altre cose, di segno positivo a tal punto da giustificare ogni colpo di coda autoritario: la legge Basaglia che chiude i manicomi, lo Statuto dei lavoratori, le 150 ore in fabbrica, il divorzio e l’aborto, il servizio sanitario nazionale, i consultori, l’obiezione di coscienza, la liberalizzazione dell’accesso all’università.
Sono anni fervidi e tutt’altro che di piombo, anche nella cultura e nell’effervescenza della cronaca: Calvino e Sciascia, Pasolini e Morante, il grande cinema civile di Gian Maria Volonté e l’Oscar ad Amarcord, le radio libere e le prime tv private, il centro sociale Leoncavallo ma anche Gardaland, Italia-Germania 4 a 3 e gli scudetti a sorpresa del Cagliari e del Torino, Alto gradimento e Fantozzi, il Dams e Cicciolina, il Mulino Bianco e i primi blandi artisti queer: Amanda Lear, Renato Zero, le Sorelle Bandiera, Leopoldo Mastelloni. Franco Gasparri re del fotoromanzo e l’emergente Raffaella Carrà. Molto altro ci sarebbe da ricordare, concludo soltanto con un piccolo marchio di fabbrica dei due autori: quello degli amori che potevano sbocciare e non sbocciarono. Negli anni sessanta quello fra il centometrista Livio Berrutti e la “gazzella nera” Wilma Rudolph, stavolta quello fra Pier Paolo Pasolini e la divina Maria Callas. Grazie a Deaglio e Carozzi per l’immersione in un decennio complicato ma anche di prepotente vivacità, si attende la prossima puntata.

Giorgio De Maria, Le venti giornate di Torino, Neri Pozza, 2024

«Le prove! E che vuole che importino le prove!… Allude forse alle impronte sulle aiuole, sull’asfalto, a fotografie che vennero scattate e di cui più nulla si è saputo? A certi ridicoli inseguimenti notturni da parte delle forze dell’ordine subito interrotti appena i massacratori ritornavano immobili da dove erano partiti?… Le prove non mancavano di certo!… Ma non se ne fece nulla, le ragioni vanno cercate probabilmente altrove… Anche la Natura può pervertirsi se la si induce ostinatamente a farlo… e deve aver compreso, la Natura, dando un’occhiatina spregiudicata alla nostra storia, dove avrebbe trovato le condizioni di sicurezza necessarie per tentare qualche nuovo esperimento di vita. Gli inamovibili, gli insospettabili, per quanto intimamente inerti e lordi di sangue dalla testa ai piedi, hanno sempre trovato condizioni di vita ideali, di assoluta sicurezza nel nostro paese. Milioni di bocche osannanti o cucite a filo doppio li hanno sempre protetti. Compreso questo, la Natura può essersi decisa a tentare un nuovo passo, fino a ora inosato. Saprebbe indicarmi qualcosa di più inamovibile, di più insospettabile di quei massacratori?…» aggiunse con una sfumatura ironica riempiendo il mio e il suo bicchiere… «O invece di rispondermi preferisce berci su?»
Al ristorante, l’avvocato Segre demolisce le speranze dell’io narrante senza nome, impiegato e suonatore di flauto per diletto, che indaga sui funesti avvenimenti di dieci anni prima. A Torino, per venti giornate di un luglio torrido e siccitoso, c’è stata un’epidemia di insonnia, una psicosi collettiva. L’aria puzzava di aceto, nella notte si udivano grida disumane, «come un terribile grido di guerra con al fondo qualcosa di grigio, di metallico». La gente, incapace di prendere sonno, si aggirava come in trance per le vie e per le piazze. E nella notte avvenivano delitti orrendi, di cui i testimoni rifiutavano ostinatamente di parlare: come se non avessero visto, come se le loro anime fossero state svuotate e prosciugate.
Uomini e donne afferrati da una forza sovrumana, usati come clave e sfracellati contro i basamenti di statue – che intanto cambiano di posto, che intanto uccidono – o contro gli alberi o l’asfalto. Una delle vittime, Rosaura Marchetti, «ebbe il volto fracassato, due lividi circolari attorno alle caviglie, delle ecchimosi all’altezza della vita. Due mani dotate di forza impressionante dovevano averla agguantata nella zona mediana del corpo e quindi oplà! in alto quanto bastava per prenderla ai malleoli e farla roteare: una centrifugazione terminata col suo spietato abbattimento contro un corpo solido. Va rilevato che il “corpo solido” contro cui la signora Marchetti fu sbattuta era questa volta un monumento: il monumento a Edmondo De Amicis… il volto baffuto dello scrittore piemontese, sporgente dal lastrone di marmo, ancora imbrattato di sangue e di materia cerebrale; gli spruzzi sanguinosi della vittima che si irradiavano fino a lambire i bambini dei bassorilievi». 
Agli omicidi e all’insonnia catatonica, in quelle terribili venti giornate, si aggiunge un’epidemia di narcisismo e di voyeurismo. Alcuni misteriosi giovani ben vestiti creano la Biblioteca, in un padiglione del Cottolengo: invitando gli autori di diari, memorie, confessioni intime e indicibili a dirle e a condividerle. Ne risulta «un limaccioso sottosuolo, un bacino di scarico dove ognuno poteva rovesciare ciò che voleva, tutta la poltiglia che teneva dentro». Gli autori si spiano tra loro, si pedinano, desiderosi di sapere sempre di più l’uno dell’altro.
Passate quelle venti giornate, tutto pare tornare alla normalità di un’ostinata rimozione, di un protervo occultamento dei fatti, che la ragione non sa spiegare e i poteri palesi e occulti non vogliono che siano indagati. Così, i testimoni dell’investigatore dilettante vengono soppressi e lui stesso, minacciato, decide di abbandonare la città. Prende un aereo per Venezia, ma non arriverà a destinazione. Fatto sbarcare in uno spiazzo deserto, si troverà di fronte un profeta con il viso mangiato dalla lebbra (un ricordo dell’Hakim di Merv evocato da Borges?), che si appresta ad affrontarlo. «Il duello, fra poco, sarebbe incominciato».
Capolavoro perturbante quant’altri mai, Le venti giornate di Torino ha una storia insolita. Lo scrisse Giorgio De Maria (1924-2009) che fu critico teatrale dell’Unità, musicista (tra i fondatori dei Cantacronache con Liberovici, Amodei, Straniero, Calvino e altri), insegnante di lettere, impiegato alla Fiat e alla Rai, drammaturgo e molto altro. E lo mandò in libreria nel 1977 una piccola casa editrice, Il Formichiere, senza grandi esiti. La sua riscoperta si deve a un critico e scrittore australiano, Ramon Glazov, che se ne entusiasmò, lo tradusse e lo fece pubblicare in America, dove il “caso De Maria” esplose. Salutato come un capolavoro del weird e del post-horror, l’autore accostato a Lovecraft e Kafka (e in Italia a Dürrenmatt e al coevo e postumo Dissipatio H. G. di Guido Morselli) e acclamato per le sue intuizioni quasi profetiche (la Biblioteca come una prefigurazione dei social e del self-publishing), De Maria ha trovato anche in Italia un estimatore convinto e ostinato in Giovanni Francesio. Che lo ha fatto ripubblicare nel 2017 da Frassinelli e, oggi, da Neri Pozza. Le venti giornate di Torino, con la sua distopia che sublima in angoscia cosmica tutte le paure del tempo – la deindustrializzazione dell’ex capitale sabauda, gli anni del tritolo e del piombo –, è un romanzo destinato a restare. Neri Pozza ha in programma di pubblicare gli altri romanzi di De Maria (I trasgressionisti del 1968I dorsi dei bufali del 1973, La morte segreta di Josif Giugasvili del 1976). Li aspetto.

Riccardo Held, Mishkin, Einaudi, 2024

Nella pregiata “Collezione di poesia” Riccardo Held (Venezia, 1954), poeta, consulente editoriale e traduttore (Racine, Balzac, Hugo, Rilke) dà alle stampe una raccolta divertita e divertente, battendo le strade del nonsense e rinverdendo la tradizione, non folta ma alta, che dalle nostre parti ha avuto il massimo esponente in Toti Scialoja. Così

Una foglia di croco
dice alla sua vicina
– Lo facciamo quel gioco
di chi cade per prima?

Maggiori e massimi trovano nelle sue quartine ironici omaggi. Come Leopardi in

Un ramo solitario
e un passero da solo
pensano a noi che, miseri,
stiamo qui, fermi, al suolo.

Nietzsche è rievocato in

Una papera insonne
legge lo Zarathustra
lì sulla balaustra
accanto alle colonne.

Le mie predilette? Le perfettamente scialojane
Lente dal Mar di Marmara
affiorano le mormore
incantate dal morbido
murmure delle tortore.

E
Ad Asti all’asta un istrice
si aggiudica un Vermeer
– Lo appendo – dice all’astice
– nel nostro pied-à-terre.

Claire Keegan, Quando ormai era tardi, traduzione di Monica Pareschi, Einaudi, 2024

Tre racconti quietamente, ambiguamente crudeli. Dove la violenza sta dietro l’angolo, fuori campo: un brontolio, un tuono sordo, una minaccia velata che squarcia il velo della cortesia, del “romanticismo”, delle buone maniere. Tre trappole da scansare, prima che sia troppo tardi.
Il giovane Cathal, dopo aver terminato di aggiornare il file di un piano di bilancio, lascia l’ufficio e torna alla sua casa vuota. Per lui doveva essere il giorno delle nozze, ma la fidanzata convivente ha deciso all’improvviso che non ne valeva la pena e ha fatto i bagagli. Di chi la colpa?
La giovane scrittrice arriva in una residenza letteraria, la casa appartata dove Heinrich Böll lavorò ai suoi diari. Ma un visitatore che si spaccia per accademico vuole visitare la casa e la insolentisce, spiandola e facendo commenti malevoli. Lei si vendicherà progettando per lui, in un racconto, “una morte lunga e dolorosa”.
La donna “felicemente sposata” è scesa in città per fare gli acquisti di Natale. E per cercare un’avventura. Che trova, anche se forse finisce assai male.
Claire Keegan, classe 1968, già acclamata per Un’estate (ne è stato tratto The quiet girl, il primo film irlandese a ottenere una nomination all’Oscar) e per Piccole cose da nulla finalista al Booker Prize, prosegue dove la grande Edna O’Brien si era fermata. I maschi irlandesi brutali di ieri oggi sono per così dire “civilizzati”: hanno appreso la buccia dell’uso di mondo, dell’apparente cortesia, ma sotto sotto cova, come brace sotto la cenere, la vecchia attitudine patriarcale alla prevaricazione. Uno stile terso, abile nelle piccole progressioni e nelle sfumature. E implacabile. Il primo racconto in particolare, che dà il titolo al libro, è una gemma.

Martin Pollack, Topografia della memoria, traduzione di Melissa Maggioni, Keller, 2021

«Occuparsi in maniera non prevenuta della Storia, della propria, ma anche di quella degli altri, è la premessa indispensabile per comprendere noi stessi, per trovare la nostra propria identità – e per incontrare l’Altro, il vicino, da pari a pari. Senza Storia non è possibile. E non dobbiamo mai cedere alla tentazione di buttare all’aria le rispettive narrazioni nazionali, di cancellarle dalla memoria, per paura che potrebbero essere d’intralcio all’incontro, un ostacolo. Tutto va detto, detto fino in fondo, scritto, per quanto possa essere doloroso. Tutte le storie devono essere raccontate, nessuna tragedia va taciuta. Ma mentre lo facciamo non dobbiamo mai perdere di vista l’obiettivo: comprendere l’Altro, accettarlo così com’è, con tutto il peso della sua Storia».
Tutto va detto, detto fino in fondo. Lo scrittore e giornalista austriaco Martin Pollack, morto il 17 gennaio scorso a 80 anni (in Italia lo ha ricordato, con un bel ritratto, Cristina Taglietti sul Corriere della Sera) lo ha fatto, affrontando a ciglio asciutto, in maniera pacata ma netta, la propria dolorosa vicenda personale. Figlio del comandante delle SS e criminale di guerra Gerhard Bast del quale rifiuta il cognome, scegliendo quello del patrigno, cresciuto da una famiglia allo stesso tempo affettuosa e rancorosamente nazista anche dopo la sconfitta tedesca, indaga sulla morte di quel padre mai conosciuto e respinto, ucciso nel 1947 sul Brennero mentre, clandestino e ricercato, cerca di tornare in Austria sotto falsa identità per rifugiarsi in Canada, nel bellissimo Il morto nel bunker (Keller, 2018: l’ho recensito qualche mese fa e lo torno a proporre come un testo fondamentale) facendo i conti con il “nazismo della porta accanto”, con la molla che spinge gli irreprensibili e i bennati a farsi mostri. Molti altri libri di Pollack andrebbero segnalati. Come l’affascinante Galizia, baedeker e viaggio sentimentale in un mondo che non c’è più, l’estremo lembo orientale dell’impero austro-ungarico in cui convivevano (e spesso si scontravano), polacchi, ebrei, russi, bielorussi, ucraini, rom, lituani ed etnie che oggi ci appaiono remote quanto Atlantide: baschiri, huzuli, casciubi. Come L’imperatore d’America che dà conto dell’esodo oltreoceano – drammatico, come tutti gli esodi – dei galiziani. 
E come questo straordinario ibrido – articoli, interventi, saggi, discorsi, ricordi – che riassume tutto il suo doloroso e intrepido cercare e che fa di Pollack un minuzioso ed empatico cartografo della memoria dell’Europa centrale: dei suoi confini spostati e cancellati, dei suoi popoli sommersi e spesso annientati, delle abiezioni e delle rimozioni.
Ricordi familiari che non tacciono sugli affetti ma continuano a interrogarsi (la lingua batte dove il dente duole) sul come sia potuto accadere. La prima sbronza di sidro a cinque anni e il nonno nazista e cacciatore costretto a darsi alla pesca perché dopo la guerra non può più tenere armi. Gli insegnanti dei padri come “cattivi maestri” del nazionalismo. I volti delle persone semplici che veicolano grandi storie e altrettanto grandi rancori, come quello del contadino slovacco Jozef Parigal che riassume l’avversione per i cechi, cittadini e arroganti, con un detto: Cecha do mecha, a mech doDunaja, il ceco nel sacco e il sacco nel Danubio. La fascinazione dei confini, la voglia di oltrepassarli. Le congetture su una foto, su un crimine, su una fossa comune. L’indignazione per gli austriaci – per i socialdemocratici austriaci, figurarsi la destra – che per quieto vivere, per non riportare alla luce ricordi sgradevoli, rifiutano di mettere una targa nel luogo dove i rom sono stati sterminati e, i superstiti, deportati nei lager. 
La difficoltà di creare una memoria comune in una società sempre più frammentata. I bambini che fanno il saluto nazista in una foto del 1932. Gli ebrei costretti dai nazisti a lavare le strade di Vienna nel 1938, tra i vicini di casa e gli spettatori che ridono e si danno di gomito. Gli ucraini rastrellati dai soldati austro-ungarici durante la prima guerra mondiale, e quelli impiccati senza processo né capo d’imputazione. La pornografia nazistoide dei siti online che vendono immagini del tempo di guerra. L’amata Galizia ancora una volta restituita attraverso volti e luoghi, e l’altrettanto amata Polonia (Pollack ribellandosi alla famiglia che lo voleva germanista si è laureato in slavistica e specializzato in polonistica) più sfaccettata di quanto l’attuale narrazione nazionalistica faccia sospettare (tra i nomi di romanzieri almeno uno da recuperare, Andrzej Stasiuk, in Italia lo ha pubblicato Bompiani). E gli scrittori dell’Est perseguitati dai loro governi. 
«Nulla può essere taciuto». C’è in Pollack la stessa mite e inflessibile determinazione, nel rievocare i sommersi, che ho trovato in chi promuove e alimenta le pietre d’inciampo. Le immagini che in questo libro prezioso interroga mi hanno fatto venire in mente un passo del filosofo Giorgio Agamben sul primo dagherrotipo, che aveva per oggetto un uomo intento a farsi lustrare gli stivali. Scrive Agamben che un gesto condensa una vita e chiama gli angeli del Giudizio. Ma, aggiunge,  «vi è un altro aspetto, nelle fotografie che amo, che non vorrei a nessun costo dimenticare. Si tratta di una esigenza: il soggetto ripreso esige da noi qualcosa. Il concetto di esigenza mi sta particolarmente a cuore e non bisogna confonderlo con una necessità fattuale. Anche se la persona fotografata fosse oggi completamente dimenticata, anche se il suo nome fosse cancellato per sempre dalla memoria degli uomini, ebbene malgrado questo – anzi, precisamente per questo – quella persona, quel volto esigono il loro nome, esigono di non essere dimenticate». 

«Nulla può essere taciuto». Martin Pollack è diventato per me un autore necessario, di più, un autore del cuore. Ne riparleremo ancora. 

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