Nelle vicende dell’abbandono 

In Teatro

© Anna Van Waeg

Al Piccolo Teatro Gaia Saitta co-adatta, dirige e interpreta un’interessante variazione del romanzo di Elena Ferrante, riportando il testo di partenza sotto una nuova lente per incredibili, suggestivi spunti di lettura

I giorni dell’abbandono di Elena Ferrante, romanzo tra i più fortunati degli ultimi decenni, è uno dei testi che meglio hanno scarnificato, analizzato e poi ricostruito il di un personaggio. Per confutare (sia mai!) Henry James, i Giorni di Ferrante più che rappresentare la vita, hanno fotografato l’inghippo di sentimenti intossicati, riuscendo nella mirabile impresa di restituire il senso di prigionia, la devastazione, l’orrore e lo smarrimento dell’abbandono. 

Emozioni d’orrore che si nutrono della parola e che gravitano, con eccellente ruffianeria, rispecchiandosi nel vissuto di praticamente chiunque; tanto che nessuno, ripensando al capolavoro di Ferrante, si congratula per la risalita della protagonista Olga, ma si sofferma a commentare dentro di sé: quella sensazione così oscena di vivere l’abbandono l’ho provata pure io – è questo risultato straordinario che fa comprendere quanto Ferrante sia perfetta per i romanzi e non per una TED o per i reel su Instagram dedicati all’awareness. 

Gaia Saitta, nel complicatissimo lavoro di adattamento per la scena (in collaborazione alla drammaturgia di Mathieu Volpe), fa ciò che ci si aspetta da quelli bravi: ripensa. La scrittura, intanto: sedotta dalle parole, rielabora e ricompone Ferrante, un po’ come avveniva con l’adattamento di Mi sa che fuori è primavera (2019, da Concita Di Gregorio, diretto da Giorgio Barberio Corsetti, adattato e interpretato da Saitta).

Per quanto riguarda l’operazione su Giorni, il lavoro di adattamento si concentra su meccanismi narrativi, equilibri tra i personaggi, sovvertimento degli ambienti: questi ultimi, più variegati e ossigenati nel romanzo di Ferrante, sono totalmente spezzettati e poi ri-compressi per lo spazio scenico di Les jours de mon abandon, produzione Théâtre National Wallonie-Bruxelles co-realizzato, tra gli altri, con il Piccolo Teatro. Saitta è legata al teatro belga, vive a Bruxelles e lì lavora come attrice, regista e drammaturga, dopo la formazione alla Silvio d’Amico di Roma. 

In un ambiente domestico che è prima fortezza per un matrimonio felice, poi prigione di una solitudine cieca e angosciante, Saitta eleva il testo di Ferrante verso la soluzione più poetica (e politica) possibile: la casa, resa materica dalle scene di Paola Villani, è un cantiere disordinato e metallico, appannato e “affannato” come la mente della protagonista.

Una casa che è il vero incubo, il problema reale – tanto da meritarsi, su finale, d’essere smantellata, poiché è lei a farsi carne e sintetizzare l’incubo di Olga, la protagonista. Alternativamente evocata o maledetta, è una abitazione in cui l’oggetto è privato della sua funzione empirica e ne assume delle altre, dai televisori che sprigionano tv spazzatura, King Kong e primi piani di infiniti divi (Karina, Magnani, Tognazzi, Travolta, Streep…), a una porta che funge da tavolo e che è impossibile spalancare per salvarsi, senza dimenticare il lavabo, i letti… Uno spazio oltre il limbo, nido squarciato in cui riversare ogni patema dell’anima, e soprattutto del corpo, in una città che non è più la Torino del romanzo ma la Bruxelles biograficamente vicina all’attrice.

Ed è proprio la biografia di Saitta a ungere e benedire le parole di Ferrante, generando una narrazione vicina al romanzo e al contempo creata dalla drammaturga a principio di sé stessa, delle sue sofferenze, di quella delle donne della sua famiglia. Saitta sa che esistono storie, corpi e personaggi più urgenti da raccontare, rispetto a Olga, eppure sente di doverla liberare da un groviglio di emozioni accecanti, che agiscono sul vissuto e lo stravolgono, mentre il Mario del romanzo (Philippe nell’adattamento teatrale) inibisce, manipola, (ci) abbandona per una giovane donna di vent’anni, ladro del tempo di Gaia e di Olga, invitando a non lasciarsi contagiare dall’ossessione (ma come ci si deve comportare per evitare l’ossessione?).

Abbandonati tutti i personaggi della matrice letteraria, la protagonista Olga (interpretata straordinariamente da Saitta stessa) si confronta solo con coloro i quali, come ha dichiarato l’attrice-regista, sono complici dell’emancipazione del personaggio principale: i due giovanissimi figli (Jayson Batut e Flavie Dachy), e il cane Vitesse (realmente presente sul palco, interprete intensa al pari di tutti gli altri). Sono loro a vestirla in abito bianco, a farsi schiaffeggiare, a vomitare a causa delle sue disattenzioni, finanche a morire, nel caso di Vitesse.

La dimora, senza confini ma incredibilmente presente e decisa a opporre barriere all’amore, diventa così cassa di risonanza per il corpo di Olga, in grado di suonarne (e farne risuonare) i battiti del cuore, il phon, il trillare del telefono, i frantumi dell’identità, che come lampi intercettano specchi invisibili e donne selezionate tra il pubblico, visibilissime e chiamate sulla scena a testimoniare la discesa all’inferno di Olga.

Come se alla protagonista si chiedesse di valicare la riflessione sul sé, intercettando per un istante tutte le tonalità del proprio animo, quelle meravigliose e pure quelle schifose, senza soluzione di continuità, nell’annaspare senza fine verso la tragedia. 

Olga si muove, ora lucida, ora animata dal furore, ora irrazionale, nell’ossessione per l’alterità: sarà quella della nuova compagna del marito? Delle parti di sé non ancora conosciute? Di due figli che sono prova di sangue della propria capacità di stare al mondo, e che lei prende a parolacce e dichiara ora d’odiare, ora d’amare? O di un cane che si abbandona a sua volta, lasciandosi morire e, attraverso il trapasso e la prossimità della fine, aiutandola a riemergere?

Les jours de mon abandon non è, nella visione di Saitta, un lavoro sulla “rinascita”: è il riappropriarsi della tragedia, come nucleo pieno di certe esistenze, della consapevolezza del proprio mito, oltre e al contempo insieme a Medea – sapientemente evocata da Saitta durante la conferenza stampa. Con Euripide, in fondo, non si sbaglia mai.

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