Le parole della musica: quando gli scrittori scrivono canzoni

In Letteratura, Musica

Italo Calvino, Franco Fortini, Pier Paolo Pasolini e non solo. Tanti Maestri delle patrie lettere si sono dedicati alla composizione di testi di canzonette. Ce ne dà conto Giulio Carlo Pantalei, italianista e frontman del gruppo rock Panta, nel sapiente e informatissimo “Una lingua per cantare. Gli scrittori italiani e la musica leggera”. Dall’esperienza torinese di Cantacronache al sodalizio fra Roberto Roversi e Lucio Dalla passando per i versi scritti negli anni ’60 dai nostri letterati per l’eclettica attrice e cantante Laura Betti

«La parola veramente poetica contiene già la propria musica e non ne tollera un’altra». Una condanna senza appello per i poeti che “fanno da attaccapanni” alla fabbrica della canzone: la pronuncia nel 1963, sulle colonne del Corriere della Sera, Eugenio Montale. Severamente vietato attraversare i binari, roba da parolieri. Quasi un atto fondativo dell’annosa querelle che oppone i testi per musica alla poesia.

Un altro grande poeta, Giorgio Caproni, che “cerca la musica nelle parole”, nel 1954 è stato scelto dalla Rai come giurato nella commissione selezionatrice per il Festival del 1955. Ne scrive divertito a Carlo Betocchi: «Stiamo “giudicando” le canzonette per il prossimo Festival di San Remo: fra rose e cipressi, in uno spreco inaudito di amor e di cuor, e di luna con ragazza bruna (a meno che non ci sia l’onda, o la luna non sia tonda, ché soltanto così la ragazza è bionda)».

Riferisce il verdetto montaliano e l’arguta lettera di Caproni Una lingua per cantare. Gli scrittori italiani e la musica leggera di Giulio Carlo Pantalei, appena pubblicato da Einaudi. Un libro sapiente e informatissimo, ricco di dettagli, una miniera che incrocia la critica testuale con quella musicale – Pantalei, oltre che italianista, è anche frontman dell’ottima rockband romana Panta – per passare al setaccio tre momenti fondativi del rapporto fra i nostri letterati e la canzone: l’esperienza torinese di Cantacronache nei tardi anni ‘50; gli scrittori che a Roma nei primi ‘60 offrono testi a Laura Betti per il fortunato spettacolo teatrale Giro a vuoto; e, fra il 1973 e il 1976, il sodalizio fra il poeta Roberto Roversi e Lucio Dalla.

Poeti, parolieri. L’edizione 1955 di Sanremo, fra le più scialbe di sempre, è un buon esempio della catena di montaggio nella canzone di allora. Dei parolieri che scrivono la qualunque. Vince Buongiorno tristezza, l’ha scritta per il comunista e attaccabrighe Claudio Villa il fascistissimo Mario Ruccione di Faccetta nera, 1500 canzoni all’attivo – di lì a poco la si sentirà in Poveri ma belli, ascoltata e acquistata da una bella ragazza con madre al seguito, nel negozio di dischi di Memmo Carotenuto e Renato Salvatori – e in gara figura, con due testi per Natalino Otto e Bruno Pallesi, anche il milanese Mario Panzeri, una lunghissima carriera che va da Maramao perché sei morto? e Pippo non lo sa a Nessuno mi può giudicare (Caterina Caselli) e Finché la barca va (Orietta Berti), passando per Papaveri e papere e Grazie dei fior.

Contro queste canzonette “gastronomiche”, di pura evasione, che vivono di ripetizioni e stereotipi, nasce nel 1957 a Torino il collettivo Cantacronache. Lo anima il compositore Sergio Liberovici stimato da un critico e storico della musica del rilievo di Massimo Mila. Sono della partita anche sua moglie Margot (Margherita Galante Garrone, la prima vera cantautrice), Fausto Amodei, Emilio Jona, Giorgio De Maria, Michele L. Straniero e Mario Pogliotti. La loro parola d’ordine è “evadere dall’evasione”, ribellarsi alle “canzoni della cattiva coscienza”, comporre ed eseguire brani che parlino della vita di tutti i giorni: il cantautorato che di lì a qualche anno avrebbe conquistato la scena li riconosce precursori e ispiratori. Non a caso Enzo Jannacci, in uno dei suoi primi dischi, riprenderà la struggente Qualcosa da aspettare di Amodei, sugli amori “prima di cena” dei giovani lavoratori, e Ornella Vanoni inserirà nel suo repertorio La zolfara di Straniero. 

Contro la melensaggine sanremese, il punto di riferimento di Cantacronache è la tradizione francese (Amodei traduce Brassens con qualche anno di anticipo su De André) che ha importanti poeti prestati alla canzone: Jacques Prévert messo in musica da Joseph Kosma (Les feuilles mortes e molte altre), Louis Aragon che scrive per Georges Brassens (Il n’y à pas d’amour heureux), Raymond Queneau che accetta l’invito di Sartre a fornire versi alla giovane Juliette Greco (Si tu t’imagines, la volta in italiano Franco Fortini intitolandola Ma cosa ti credi) e Boris Vian che alterna romanzi e canzoni di cui è interprete. Gli chansonnier francesi i poeti li hanno anche messi in musica: ancora Brassens con Villon, Hugo, Lamartine, Richepin, Jammes e Paul Fort (un’eco italiana se ne ha con Le passanti tradotta da Faber), Leo Ferré con interi album dedicati a Baudelaire, Verlaine, Rimbaud e Apollinaire. 

Cantacronache seguirà la lezione: è Mario Pogliotti ad allestire collage di Pavese (Un paese vuol dire non essere soli, ripreso anche da Bruno Lauzi e Gigliola Cinquetti) e Rocco Scotellaro (È fatto giorno). Oltre ai francesi, l’altro punto di riferimento per Liberovici & c. è il cabaret tedesco di Brecht e Weill, che in quegli anni è portato in Italia dal Piccolo Teatro di Strehler e Grassi ispirando – ma di questo il libro di Pantalei non parla – le “canzoni della mala” (Ma mì, Hanno ammazzato il Mario, Sentì come la vosa la sirena) in cui hanno parte di rilevo il giovane Dario Fo, artefice di un lungo sodalizio con Enzo Jannacci, e un compositore come Fiorenzo Carpi.

Gli amici letterati che gravitano fra la Rai e il giro einaudiano, affascinati dall’esperimento Cantacronache, si prestano. Gianni Rodari mette a disposizione le sue filastrocche (negli anni a venire ci attingeranno anche Sergio Endrigo per Ci vuole un fiore ispirato dalla Grammatica della fantasia, e Marco Paolini con i Mercanti di Liquore per il bellissimo Sputi) e un giovanissimo Umberto Eco la butta in parodia, trasformando 24.000 baci di Adriano Celentano in 24 megatoni.

Forse può darsi il tuo marmocchio / ti nascerà cieco da un occhio / ma questo è un rischio da affrontar / sì sì perché… // Con ventiquattro megatoni / risolverem tante questioni…

Italo Calvino

Gli apporti più significativi arrivano però da Italo Calvino e Franco Fortini. Calvino, che ha già raccontato l’esperienza partigiana e si è misurato con la narrazione popolare (Fiabe italiane è del 1956) appronta per Liberovici Dove vola l’avvoltoio?, al tempo stesso innodica e fiabesca:

Un giorno nel mondo finita fu l’ultima guerra, / il cupo cannone si tacque e più non sparò, / e privo del tristo suo cibo dall’arida terra, un branco di neri avvoltoi si levò. //  Dove vola l’avvoltoio? / avvoltoio vola via, / vola via dalla terra mia, / che è la terra dell’amor. // L’avvoltoio andò dal fiume / ed il fiume disse: “No, / avvoltoio vola via, / avvoltoio vola via. /  Nella limpida corrente / ora scendon carpe e trote / non più i corpi dei soldati / che la fanno insanguinar”…

La riprenderanno gli Yo Yo Mundi, se ne ricorderà Fabrizio De André quando compone La guerra di Piero: “Lungo le sponde del mio torrente / voglio che scendano i lucci argentati / non più i cadaveri dei soldati / portati in braccio dalla corrente”. 

Una decina di testi compongono l’apporto di Calvino al canzoniere del tempo. Popolare negli anni la partigiana Oltre il ponte, ripresa fra gli altri da Modena City Ramblers, Vinicio Capossela e Grazia Di Michele, con la sua “ragazza dalle guance di pesca” che ha ispirato anche Francesco De Gregori (300.000.000 di topi):

O ragazza dalle guance di pesca, / O ragazza dalle guance d’aurora, / Io spero che a narrarti riesca /  La mia vita all’età che tu hai ora. / Coprifuoco: la truppa tedesca / La città dominava. Siam pronti. / Chi non vuole chinare la testa / Con noi prenda la strada dei monti. (…) // Avevamo vent’anni e oltre il ponte / Oltre il ponte che è in mano nemica /  Vedevam l’altra riva, la vita, / Tutto il bene del mondo oltre il ponte. / Tutto il male avevamo di fronte, /  Tutto il bene avevamo nel cuore, / A vent’anni la vita è oltre il ponte, /  Oltre il fuoco comincia l’amore.

Da un racconto di Amori difficili arriva invece Canzone triste, anche questa musicata da Liberovici e affidata alla voce di Margot.

Erano sposi. Lei s’alzava all’alba /  prendeva il tram, correva al suo lavoro. / Lui aveva il turno che finisce all’alba / entrava in letto e lei n’era già fuori. // Soltanto un bacio in fretta posso darti / bere un caffè tenendoti per mano. / Il tuo cappotto è umido di nebbia. / Il nostro letto serba il tuo tepor.

Franco Fortini

Amori operai, camporelle domenicali con un occhio alla lambretta e un orecchio ai risultati delle partite portati dalla radioline nella memorabile Quella cosa in Lombardia di Franco Fortini e Fiorenzo Carpi, una delle più belle canzoni italiane di sempre e la prima che parli apertamente di sesso. Fortini la affidò a Laura Betti, nel tempo l’hanno incisa Enzo Jannacci e Bruno Lauzi, Giorgio Gaslini e Anna Nogara, Leopoldo Mastelloni e Cristina Zavalloni, io amo molto anche la recente versione della bresciana Angela Kinczly.

Sia ben chiaro che non penso alla casetta / due locali più i servizi, tante rate, pochi vizi,
che verrà quando verrà… / penso invece a questo nostro pomeriggio di domenica, / di famiglie cadenti come foglie… / di figlie senza voglie, di voglie senza sbagli; / di Millecento ferme sulla via con i vetri appannati / di bugie e di fiati, lungo i fossati della periferia… // Caro, dove si andrà, diciamo così, a fare all’amore? / Non ho detto “andiamo a passeggiare” / e nemmeno “a scambiarci qualche bacio”… / Caro, dove si andrà, diciamo così, a fare all’amore? / Dico proprio quella cosa che tu sai, / e che a te piace, credo, quanto a me!

È di Fortini anche Le nostre domande, carica d’amore incagliato e quieto struggimento. L’ha musicata e incisa Margot, di recente l’ha ripresa anche Francesco Guccini in Canzoni da intorto. A Margot è capitato di restituire l’omaggio al Maestrone con un’Avvelenata femmina più feroce dell’originale, la trovate su YouTube.

Quant’è lunga la vita, e com’è strana / Com’è lontana la città a quest’ora / E ieri non ti conoscevo ancora / E domani chissà se ti vedrò // Cerchi la tua collana, e non la trovi // E il pettine non è dove credevi / Si è fatto tardi e devo salutarti / E non sai più se mi vuoi bene o no // Forse un uomo vuol sapere troppo / Ma anche tu vuoi sapere, e non lo chiedi / Che cosa pensi quando non mi vedi / Che cosa vedi quando guardi me // Cerchi le sigarette, e non le trovi / Cerchi d’essere allegro, e non ci arrivi / Si è fatto tardi e devo salutarti / E non sai più chi ero e chi sarò // Quanti anni son passati su noi due / Com’è breve la vita, e com’è strana / Quel ch’era vicino, si allontana / Quel ch’era lontano è accanto a te // Cerchi la giovinezza, e non la trovi / Ma ora sai che cosa le chiedevi / Si è fatto tardi e siamo ancora insieme / A domandarci quel che non si sa / Si è fatto tardi e siamo ancora insieme / A domandarci quel che non si sa.

Il Fortini intimo e “crepuscolare” si accompagna, in quella stagione, all’autore di strofette politiche pronte all’uso e al lancio. Con Inno nazionale: “Fratelli d’Italia, tiriamo a campare”; con La marcia della pace affidata a Maria Monti e sequestrata in tutta Italia per vilipendio alle forze armate: “E se la Nato chiama ditele che ripassi / lo sanno pure i sassi, non ci si crede più”. Fino a sfociare nella rivisitazione dell’Internazionale che verrà incisa da Ivan Della Mea:

Noi siamo gli ultimi del mondo. / Ma questo mondo non ci avrà. / Noi lo distruggeremo a fondo. / Spezzeremo la società. / Nelle fabbriche il capitale / come macchine ci usò. / Nelle scuole la morale / di chi comanda ci insegnò. // Questo pugno che sale / questo canto che va / è l’Internazionale / un’altra umanità. / Questa lotta che uguale / l’uomo all’uomo farà, / è l’Internazionale. / Fu vinta e vincerà.

Pier Paolo Pasolini e Laura Betti

Da Torino, passando per il Nuovo Canzoniere Italiano, il rapporto fra scrittori e musica leggera” fa tappa a Roma nel 1960. Lì l’attrice Laura Betti, “la Giaguara”, vuole allestire uno spettacolo di canzoni, Giro a vuoto. Per lei scrivono in tanti. Pier Paolo Pasolini è l’autore più importante, il solo non occasionale e duraturo che da tempo frequenta l’epos e il melos popolare: la sua antologia Canzoniere italiano è del 1955. Per Laura Betti PPP scrive fra le altre le splendide Valzer della toppa e Cristo al Mandrione su povere e straziate vite sottoproletarie, che avranno lunga fortuna nella canzone romana: oltre che nella versione originale della Betti, le trovate cantate da Gabriella Ferri, Gigi Proietti, Tosca, Aisha Cerami e altri. Qualche anno dopo, Pasolini scriverà per Domenico Modugno Questo mio folle amore, una libera rielaborazione dall’Otello di Shakespeare (in anni recenti l’ha incisa l’attore Claudio Santamaria con Mauro Pagani, da ultimo anche il cantautore Luca Gemma) e verrà messo in musica da Sergio Endrigo (Il soldato di Napoleone).

Le canzoni di Giro a vuoto sono, al tempo stesso, il controcanto e la colonna sonora della Dolce vita. Con le sue donne deragliate appresso ai militari (l’esilarante Seguendo la flotta di Alberto Arbasino):

Ossigenarsi a Taranto / è stato il primo errore / l’ho fatto per amore / di un incrociatore / e sono finita / su un rimorchiatore. // Andare a bordo ad Augusta / è stato un altro sbaglio / io che non son robusta / mi ha vista l’ammiraglio / ha preso la frusta / mi ha fatto anche un taglio.

Donne in preda al disamore (E invece no di Goffredo Parise): 

Lo so / Che tu ce l’hai con me / Mi guardi con disprezzo / Perché non amo te / Lo so / Che mi vorresti secca / Sperando che da morta / Io ti dicessi sì // E invece no / Non te lo posso dire / Non ti voglio far male / Ma nemmeno amare

o vittime della depravata mondanità romana come La Bella Leontine, ancora di Parise, che

da morta è ancora più lunga. / Sembra fatta di gesso da presa. / Calze nere piedoni a punta, / la sua cassa pareva un comò. // Stanotte l’ho sognata / nell’al di là. / Prendeva tante botte, / ma tante più di qua.

Delizioso l’Ennio Flaiano di Dimenticata ovvero Sublime indecisione:

Ho letto con ritardo / Lolita e il Gattopardo. / Così passai l’estate / tra speranze infondate. / Perché non scrivi più? / Mi abbandoni anche tu?

E sulfureo con Oh com’è bello sentirsi scritta con Gigi Proietti:

Oh, com’è bello sentirsi profondamente intelligenti, / con il sesso sdilinquirsi, per la donna restare indifferenti; / oh com’è bello orientarsi con questa moda che passa, / perdere tempo a farsi una cultura di massa, / rispondere ad ogni inchiesta, avere sempre un’opinione /partecipare ad una festa per studiare la situazione…

Con Arbasino arrivano donne fuori dal coro e sopra le righe. Come La generosa:

Quando una cosa piace / si compra e si paga; / 

tu lasciami in pace, /  non fare la piaga / solo perché una si svaga.

Oppure La bambinona:

Disprezzo le ninfette; / odio le bamboline / sono tutte scimmiette, / e per di più cretine. / L’unica bella e buona / son io, la bambinona.

Con il suo opposto speculare:

Non sarò bella di faccia,/ però son forte di braccia. /  Sono una bambinaccia.

In tanto scialare cabarettistico un po’ cinico, le uniche prove deludenti vengono da Alberto Moravia che, giura Laura Betti, proprio ‘gna fa («Io gli dicevo: Alberto, basta che tu fai diciannove, tredici, ventuno. Poi ci metti sopra le parole, capito?»): litanie fiacche contro la Seicento, storie di donne che si vogliono buttare di sotto per noia e non si buttano.

Roberto Roversi

Passano poco più di dieci anni, ci si sposta a Bologna e con tre album (Il giorno aveva cinque teste del 1973, Anidride solforosa del 1975 e Automobili del 1976) la poesia di Roberto Roversi, libraio antiquario come Umberto Saba e animatore di riviste importanti del dopoguerra (almeno Officina con Leonetti, Pasolini e Fortini), incontra la musica in ebollizione di Lucio Dalla, fino a quel momento talento già consacrato (4/3/1943) ma ancora a cavallo fra un mainstream irrequieto e una cifra tutta sua. Con Roversi la trova in canzoni abbastanza note e reperibili in rete perché ci sia bisogno di citarle: storie di emigrati (L’operaio Gerolamo) e di ragazzi finiti in carcere (Mela di scarto), di ragazze morte ai margini dell’autostrada (Carmen Colon) e di leggende di ieri (Nuvolari), surreali interviste ad Agnelli, città industriali e ambiente devastato, riletture tesissime della storia patria (Parole crociate) sorrette da una musica mutevole e mutante che si reinventa ad ogni brano, da una voce mai fino ad allora così duttile. 

Il sodalizio fra Dalla e Roversi è il canto del cigno del rapporto fra letteratura e musica: ci sono stati altri importanti episodi di riscrittura e/o rilettura dei poeti (Silverio Pisu canta i poeti d’oggi del 1965: dentro ci sono tra gli altri Montale, Saba, Quasimodo, Ungaretti e Penna; Non al denaro non all’amore né al cielo di De André, 1971, che si confronta con l’Antologia di Spoon River), altri ne arriveranno (il notevolissimo Branduardi canta Yeats del 1986; i quattro dischi, uno con Milva, che Giovanni Nuti cesella per Alda Merini). 

Più sparse incursioni: David Riondino che mette in musica Milosz, Lorca e addirittura Dante nel Temporale, 1994; i due album di questi anni che gli Ardecore dedicano a Giuseppe Gioachino Belli; Branduardi che rende omaggio a Fortini del quale è stato alunno per tre anni con Il funerale tratto dai Fogli di via, nel fortunatissimo Alla fiera dell’Est; Claudio Lolli che musica Gianni D’Elia e il Cesare Pavese di Verrà la morte e avrà i tuoi occhi in 9 pezzi facili del 1992; Gian Maria Testa che fa volare X agosto di Pascoli nel postumo Prezioso del 2019; Fiorello showman agli esordi che fa karaoke con San Martino di Carducci; Edoardo Bennato che in una traccia fantasma di L’uomo occidentale, 2003, imitando alla perfezione Guccini mette in musica il Manzoni di Marzo 1821 e Berchet (“Han giurato, li ho visti in Pontida…”, con evidente sfottò antileghista). 

Ma gli scrittori che scendono in campo? Al massimo Gesualdo Bufalino (Quello che resta, versione di Que reste-t-il de nos amours di Trenet regalata a Battiato per il suo Fleurs del 1999) ed Erri De Luca con qualche testo per Marco Paolini e per il Canzoniere Grecanico Salentino. Perché nel frattempo i cantautori si sono ripresi la parola inventando, come ha scritto con felice neologismo Giuseppe Antonelli, «uno strano caso di poesia pop-orale».

(Visited 1 times, 1 visits today)