Ezio Bruno Caraceni, fuori dal labirinto dell’oblio

In Arte

I Musei Civici Eremitani di Padova fino al 30 marzo 2025 ospitano la mostra “Ezio Bruno Caraceni – Nel labirinto dell’informale – dagli anni ‘50 ai ‘70”, a cura di Enrica Feltracco e di Massimiliano Sabbion e con testi in catalogo di Elisabetta Vanzelli e Carlo Fumian. Una retrospettiva che offre al pubblico la straordinaria possibilità di riscoprire, e per molti scoprire tout court, un artista brillantissimo e complesso, protagonista e a tratti anticipatore dello spirito della sua epoca, non ultimo del lavoro di Burri. La retrospettiva, composta da oltre cento opere provenienti dall’Archivio Caraceni, racconta il percorso dell’artista nato a Chioggia nel 1927 e morto a soli 59 anni, dopo aver vissuto gran parte della vita a Roma. Ce la racconta uno dei curatori.

La mostra “Ezio Bruno Caraceni – Nel labirinto dell’informale – dagli anni ‘50 ai ‘70” è stata studiata per mettere in evidenza i mezzi attraverso cui Caraceni ha saputo «superare la tradizione». La sua pittura di gesto, caratterizzata da un’arte tecnica, precisa e oggettiva, si distingue per l’assenza di elementi intimistici. Il percorso espositivo si articola in quattro fasi che ripercorrono la vita dell’artista. Dalla fine degli anni ‘40 al 1956 è il periodo della sua formazione: in questa sezione sono raccolte le opere realizzate in un periodo di profondi cambiamenti per l’artista. Sono gli anni in cui lascia la sua città natale, Chioggia, per trasferirsi a Roma. Le opere di questi anni portano il titolo Scherzi, un omaggio ai grandi maestri del passato come Joan Mirò, Paul Klee e Pablo Picasso. Queste creazioni si sviluppano lungo un filo grafico calligrafico, preludio ai Gesti che caratterizzeranno la sua produzione successiva. In musica, lo scherzo è una composizione brillante e giocosa, e lo stesso spirito pervade le opere di Caraceni: giochi visivi che alleggeriscono le tensioni cromatiche, trasformandosi quasi in partiture musicali. Negli Scherzi si può cogliere anche un riferimento al circuito elettrico, inteso come flusso di energia. 

Manifesto Re-Do n.36 (Plastico 36), 1957. Plastica dipinta e combusta su legno 116×85 cm

Una seconda sala espositiva è allestita con articoli di giornali, foto e manifesti originali, per ricordare la rivoluzione degli artisti di Via Margutta, un evento significativo avvenuto il 20 gennaio del 1955 di cui Ezio Bruno Caraceni fu uno dei promotori. Il motivo principale della protesta era l’aumento vertiginoso degli affitti, che rendeva difficile per molti artisti continuare a vivere e lavorare in Via Margutta. Gli artisti scesero in strada per protestare e sensibilizzare l’opinione pubblica e le autorità cittadine sulla situazione contro questi aumenti e per preservare il carattere artistico e culturale della via. Tra il 1957 e il 1958, Caraceni abbandona la pittura tradizionale per sperimentare con nuovi materiali come plexiglas e plastica. Questi elementi vengono fusi, bruciati, incollati e stratificati sulla tela, intrecciandosi fino a creare nuove strutture. L’artista avverte l’urgenza di dare forma alla materia, trasformandola in una presenza tangibile e autonoma. In questo periodo Caraceni viene invitato alla Biennale di Venezia nel 1956 e nel 1958 e partecipa alla Quadriennale di Roma del 1960, anno in cui si svolge anche la mostra alla Galleria del Cavallino di Venezia. Tra le opere esposte si trovano quelle della Collettiva del 1960 alla Galleria Appia Antica. Un momento molto importante per la presenza di artisti tra più ricercati e interessanti nel panorama culturale nazionale e internazionale dell’epoca, come Mario Schifano, Mark Rothko, Jackson Pollock, Hans Hartung, Emilio Vedova, Alberto Burri, Giulio Turcato e molti altri.

A.U.R. n.6, 1957. Plastica dipinta e combusta su legno, 60×80 cm

È il trionfo della materia grezza, che esplode come magma in colate incandescenti. I colori – verdi, azzurri, rossi – riaffiorano in tutta la loro forza primordiale, espressione della materia stessa e del suo dinamismo. L’artista si trasforma in un accumulatore di energia, che scarica direttamente sulla tela: la squarcia, la attacca, la trasforma in una superficie tridimensionale che cattura e riflette la luce, scolpendola nello spazio. Il confronto con Burri è inevitabile: entrambi sperimentano con la plastica combusta, Caraceni prima di Burri, ma mentre Burri incornicia il dolore della materia in un rigore compositivo calibrato, Caraceni si libera da qualsiasi vincolo grafico-formale. Nei suoi lavori, i colori – specialmente il rosso lavico, acceso dal contrasto con il nero – si espandono e si mescolano in emulsioni caotiche, straripando dai confini rigorosi tipici di Burri.

Senza titolo, 1958. Chiodi, filo metallico, plastica dipinta e combusta su legno dipinto 68×82,5 cm

Dalla pittura materica, dominata dal colore e dalle stratificazioni di materiali, Caraceni inizia ad inserire elementi destinati a diventare centrali nella sua produzione successiva: i fili. Con il tempo, questi diventeranno l’unico elemento superstite della sua ricerca pittorica negli anni ’60. La materia si dissolve, lasciando emergere uno scheletro essenziale, privo di ogni sovrastruttura. Come da me evidenziato in mostra, il filo è il cordone ombelicale di Caraceni, costantemente presente nella sua vita: dalle reti dei pescatori di Chioggia, dai lavori delle donne tra le mura domestiche con il tombolo, agli itinerari invisibili degli aerei osservati dall’alto del campanile della sua città dal quale estrapola l’essenza di mappe in una labirintica visione, dove si esce grazie al soccorso di un “filo d’Arianna”. Il tema della comunicabilità e incomunicabilità umana emerge con forza dalle sue opere. 

Gesti n.6, 1960. Chiodi, filo metallico, filo elettrico su legno dipinto e sabbiato, 125×125 cm

I «fili», negli anni ’60, caratterizzano il periodo più significativo dell’arte di Caraceni, rappresentando il punto di rottura tra chiodi e fili di ferro. Come sottolinea la curatrice Enrica Feltracco: “Con Caraceni, tutto si imbroglia. Le sue opere, a parte una generica appartenenza al mondo dell’astratto e/o informale, che sommariamente collocheremo nel secondo dopoguerra (senza dimenticare illustri ascendenze, tra le quali mi par di intravvedere la grand’ombra di Kandinskij), nella loro impressionante varietà sembrano appartenere a un mondo parallelo, turbinoso e variegatissimo, fatto ora di geometrie nitide e tridimensionali, quasi un ponte tra pittura e scultura (a cominciare dalla meraviglia dei fili che Palma Bucarelli non esitò a definire “oltre l’Informale”), ora di grumi materici «espressionistici» e molto action, ora di meditatissime e placate spazialità, ora di invasioni monocromatiche: ma avulsi da facili collocazioni temporali.”

Senza titolo, 1965. Litografia su carta, 70×100 cm

L’ultimo periodo individuato dai curatori è quello dei «labirinti e delle mappe», presenti nell’importante mostra alla Galleria del Cavallino, curata da Maurizio Calvesi nel 1968, anno in cui Caraceni viene anche invitato nuovamente alla Biennale d’Arte di Venezia e di Tokyo. Nelle Mappe si percepisce il bisogno di un ritorno ad un mondo antropizzato, ma dove la scienza diventa fantascienza, come una terra vista da un’astronave, oggi potremmo dire da un drone o meglio da un satellite, Caraceni costruisce delle scenografie mentali che lasciano allo spettatore la libertà di immaginare nuove forme di vita. Mondi fantastici, simili alle antiche carte geografiche dei navigatori e dei primi topografi, che cercavano di tradurre su un piano bidimensionale la complessità dello spazio tridimensionale. Tra il 1965 e il 1968, Bruno Caraceni sviluppa il concetto delle Strutture-Labirinto, portando in rilievo l’organismo già esplorato nei fili e nelle Mappe. Proprio da queste ultime nasce l’idea di trasformare la bidimensionalità del disegno in una struttura tridimensionale: il Labirinto si presenta quasi come un plastico architettonico, costruito attraverso la ripetizione modulare dello stesso elemento a diverse altezze. 

Antistruttura/Labirinto/12, 1968. Struttura di balsa incollate e dipinte su legno dipinto, 90×86 cm
Opera presenta alla Biennale Internazionale d’Arte di Venezia, 1968

Le Strutture-Labirinto sfruttano rilievi di elementi industriali in plastica prestampati, che animano lo spazio a ridosso della superficie con un’eleganza raffinata, pur rimanendo all’interno della gabbia del quadro. Per trovare la via d’uscita, serve un segno, una traccia che guidi il percorso, proprio come accade nella scienza e nel pensiero razionale. Quale segno migliore se non un filo? Lo stesso filo che, nella mitologia, permise a Teseo di uscire dal labirinto grazie ad Arianna, ora aiuta lo spettatore moderno a districarsi tra le complessità della conoscenza e a ritrovare il bandolo della matassa.I «segni» non abbandonano mai la sua ricerca, si ritrovano nello studio sviluppato nella serie dei Gesti, delle Mappe e dei Labirinti e sono presenti ancora nella sua ultima produzione con le opere dei Multipli e dei Geometrici.

Ezio Bruno Caraceni con Peggy Guggenheim nel 1957

La riscoperta è il valore aggiunto di questa esposizione: «Mi auguro che questa mostra apra nuovi scenari di studio su Ezio Bruno Caraceni – commenta la curatrice Enrica Feltracco –, affinché se ne possa finalmente apprezzare il contenuto innovativo e il suo ruolo di precursore».

Ezio Bruno Caraceni, Nel labirinto dell’informale dagli anni ‘50 ai ‘70. Padova, Museo Eremitani, Padova, fino al 30 marzo 2025

(Visited 6 times, 1 visits today)