Un bel romanzo d’amore tradito sul contesto del trasformismo all’italiana, vecchia ed eterna storia: e sono proprio la profondità della storia, il senso del tempo così densi in Tomasi di Lampedusa come nel capolavoro di Visconti a mancare al nuovo Gattopardo, sontuosa serie di Netflix con Rossi Stuart e Benedetta Porcaroli
Tutti a dire non facciamo paragoni, per favore, non facciamoci riconoscere con la solita nostalgia e il culto della personalità. Comunque nessun titolo così onusto di gloria, né di Fellini né di Antonioni o Rossellini (solo De Sica con “La ciociara” per la tv) ha mai avuto remake. Invece il nuovo “Gattopardo” inglese di Tom Shankland (autore di serie come “I miserabili”, “The serpent”, regista di 4 episodi su sei, gli altri sono di Capotondi e Luchetti), merita paragoni perché vuole essere alternativo, anche perché seriale e su piattaforma, al capolavoro di Luchino Visconti, definito il nostro “Via col vento”, che vinse la Palma a Cannes nel ’63 e fece entrare al cinema in Italia 12.850.375 spettatori (2,3 miliardi di lire di allora): il biglietto in prima visione costava per la prima volta duemila lire.
Non facciamo paragoni neanche con la riduzione teatrale di Barbareschi, non rimasta negli annali, se mai facciamoli con “I figli del leopardo” di Sergio Corbucci un Franchi & Ingrassia del ’65 che visto oggi diventerebbe subito cult. E soprattutto facciamoli con questo kolossal che vanta 105 giorni di riprese e un anno di montaggio, effetti digitali e una troupe di droni al lavoro (l’arrivo a Donnafugata visto dall’alto) con cui è giusto confrontarsi. Ora la protagonista diventa Concetta, la figlia in “ostaggio” paterno del principe di Salina (nel ’63 era la malinconica Lucilla Morlacchi), una bravissima Benedetta Porcaroli che è il perno dell’azione sentimentale nella sua ribellione al padre padrone. I fatti sono quelli che sono, iniziano nel 1860 con l’arrivo dei garibaldini in Sicilia, il nipote Tancredi che si allea con loro andando contro lo spirito di casta nobiliare (un po’ spiantata), le nozze con la bella e volgare figlia del sindaco di provincia, già pronto ad arraffare le terre e manovrare i voti, lasciando al convento la cugina. E poi la gran festa finale che con Visconti era il ballo proustiano dei Guermantes, chiudendo in quasi un’ora di proiezione, nel disfacimento di tartine, creme e gelati e nei ritmi stanchi, appannati di polke e mazurke quasi all’alba, la crisi di un’epoca. Resta in mente lo sguardo triste e premonitore del principe, che morirà nel 1883, rivolto al quadro di Greuze “Il figliol prodigo”, che si vede appeso anche in questa versione ma da lontano (andare al Louvre per vederlo da vicino). C’è un valzer, certo, ma non è quello inedito di Verdi che si diceva trovato per caso da Romolo Valli su una bancarella e rimasto da allora in mente: il ballo di Kim Rossi Stuart (il secondo Fabrizio) e di Deva Cassel, più modella che attrice, assente nella psicologia da sfilata, in rosso sangue come la perfida Bette Davis in “Jezebel”, non ha alcun alone mitico. Dura lo spazio di un ballo, è girato nella bellissima sala dell’hotel Plaza di Roma, ma non c’è alcun “non detto”. Ma Verdi si sente anche qui, nella quinta puntata, quando il gattopardo va a Torino perché invitato a fare il senatore del nuovo regno d’Italia, cui rinuncerà vista la mala parata del prediletto Tancredi e Angelica, matrimonio aperto per convenienza di carriera verso la Francia: c’è la serata di gala all’opera e al Regio fanno il Nabucco col patriottico Va pensiero.
Essendo priva di comparazioni questa parte ha un suo senso, anche perché l’edizione Netflix si spinge fino alla morte di don Fabrizio che s’accascia in giardino, come Marlon Brando nel “Padrino” e poi resta in coma. Il libro di Tomasi di Lampedusa, si spinge fino al maggio 1910 e finisce con la morte del cane Bendicò: “Poi tutto trovò pace in un mucchietto di polvere livida”. Si sente all’inizio e alla fine, l’aria raffinata di Haendel “Lascia che io pianga” dal “Rinaldo”, che si adatta all’atmosfera del convento, dove conosciamo Concetta, che vi ritornerà due anni dopo. Finisce un’epoca nobile, che nella realtà vedrà il palazzo avito crollare sotto i bombardamenti del 1943, ma lo scrittore morì un anno prima di assistere al trionfo del suo romanzo scritto di getto, ispirato al bisnonno paterno. Fu premio Strega e primo best seller italiano da 250.000 copie nel primo anno, grazie al fiuto di Giangiacomo Feltrinelli. La genesi della pubblicazione nel ‘58, è nota, fu polemica e difficoltosa: rifiutato da Mondadori, scartato da Vittorini, protetto da Giorgio Bassani che lesse il manoscritto consegnatogli da Elena Croce, la figlia del filosofo. Poi il trionfo in libreria, quando Feltrinelli spadroneggiava: “Il dottor Zivago” e “Il buio oltre la siepe”, erano titoli da 3 milioni di copie ciascuno, mentre il principe di Salina nella scia del decadimento della nobiltà siciliana, arrivò a quattro.
Il nuovo film è ricchissimo e godibile per chi ci arriva vergine come il protagonista Kim che mantiene l’innocenza dell’eterna giovinezza nell’aspetto, ha gli optional tecnici dei tempi, è molto più in esterni, con la famiglia allineata sull’attenti, che in interni quando i nobili pregano, anzi deglutiscono le preghiere davanti al gesuita don Perrone. In quanto ai costumi, centinaia, il costumista Piero Tosi è un pezzo unico, si può solo imitare. Nella versione nuova si anticipa il ballo finale con un’altra festa in onore dei garibaldini, assente nel romanzo, drammaturgicamente un errore degli sceneggiatori Richard Warlow e Benji Walters. La protagonista di tutto, perfino il colloquio con la prostituta da redimere, è decisamente Concetta, quindi la serie diventa soprattutto un bel romanzo d’amore tradito sul contesto del trasformismo all’italiana che dall’epoca borbonica-garibaldina-sabauda si trasferisce poi, step by step, fino ad oggi. Tanto che la discussione su certi terreni con cui il nuovo ricco e strozzino don Calogero Sedara vuole rovinare un possidente, appare straordinariamente attuale: è la crudeltà del rapporto economico, siamo tutti destinati all’indigenza, principe dixit. Quello che manca è la Storia: per Visconti era quasi autobiografia, ed era la seconda volta, dopo “Senso”, che presentava il Risorgimento come una rivoluzione mancata. La disillusione congenita era evidente in Lancaster, allora 50enne di Manhattan che Visconti temeva sembrasse un cow boy: lui voleva Laurence Olivier, ma Goffredo Lombardo che aveva prodotto anche “Rocco e i suoi fratelli”, impose per il botteghino l’attore bravissimo, come erano strepitosi Valli, il padre gesuita Pirrone (qui Paolo Calabresi) e Paolo Stoppa, il piccolissimo borghese don Calogero, sostituto da Francesco Colella che ci assicura che continuerà a restare fra noi anche tra 200 anni. La Titanus invece rischiò il fallimento per i costi del film, se non ci fossero stati i filmetti di Franco e Ciccio a salvare la baracca.
Kim Rossi Stuart obbedisce a tutti gli sviluppi della trama (in questa edizione va molto al bordello ma lo si vede anche quando dolorosamente perde il figlio Paolo): gli manca l’interiorità, non ha un passato, e si vede dall’andatura che va molto a cavallo, più del cow boy dell’OK Corral. L’arrivo a Donnafugata manca della strepitosa impolverata sequenza in chiesa ed anche la cena del timballo in cui appare don Calogero e la bella misteriosa Angelica, non ha la sostanza narrativa né il ritmo dell’insieme, la risata della ragazza non ha paragoni con quella della splendida Cardinale, doppiata da Solvejg D’Assunta (mentre contemporaneamente in “8 e mezzo” Fellini usava la sua voce). E manca, a favore dei sospiri d’amore di Concetta col suo maxi complesso di Elettra nei confronti del padre, lo spirito ironico che era la rete di protezione del sontuoso e raffinato film viscontiano, anche per giustificare lo scetticismo di don Fabrizio, la sua rassegnazione, la sua voglia di quel sonno che somiglia al desiderio di morte. Noi fummo i gattopardi, leoni e poi sciacalletti e iene eccetera, è la frase che si attende, ed è morale storica, valida per ogni generazione, perchè “continueremo tutti a crederci il sale della terra”. Improponibile anche il paragone con Delon, al top della sua carriera, perché Saul Nanni mette molta buona volontà ma non ha mai una particella di fascino e così risulta solo un misero arrivista e anche quando fa il Figliol prodigo non sgorga alcuna commozione. Questo Gattopardo è nella traiettoria del comune senso estetico del pudore seriale delle grandi saghe familiari, ma nuota in superficie, manca il senso del Tempo, di quei 25 secoli di magnifiche civiltà eterogenee arrivate in Sicilia, dice don Fabrizio, già pronte all’uso.