Vista da noi, vista dagli altri. Giovanna Calvenzi spiega le scelte (difficili) di ‘Italia inside out’: 600 immagini del nostro paese pensate per chi visiterà Expo
L’Italia vista da noi e l’Italia vista dagli altri. Russi, francesi, americani. Da oggi fino al 27 settembre potremo esplorare prospettive complementari a Palazzo della Ragione Fotografia, grazie a Italia Inside Out.
O meglio, da oggi fino al 21 giugno saranno esposti gli scatti dei fotografi nostrani; poi, dal primo luglio, sarà il turno degli stranieri. Promossa e prodotta da Comune di Milano, Palazzo della Ragione, Civita, Contrasto e GAmm Giunti e progettata negli allestimenti – di cui non vi anticipo niente, se non che sono straordinari – da Peter Bottazzi, questa mostra è un ambizioso mosaico del nostro Paese che si compone di 600 immagini.
Una delle mostre più ‘presuntuose’ che siano mai state fatte, parola della curatrice, la photoeditor Giovanna Calvenzi.
Come mai la decisione di dividere in due parti la mostra?
Questa rassegna è stata pensata per i visitatori di Expo, un pubblico molto allargato e variabile nell’arco di sei mesi. L’idea iniziale degli organizzatori era dunque quella di fare un’unica mostra in cui italiani e stranieri si confrontassero sullo stesso campo d’azione. Quando però ho iniziato a lavorare sulla selezione degli autori del nostro Paese che hanno contribuito a creare una “visione italiana” della fotografia, mi sono resa conto che erano tantissimi. Così abbiamo innalzato il loro numero da 30 a 42 e io ho fatto la controproposta di dividere la mostra in due parti, cercando di dar vita a qualcosa che fosse il meno noioso possibile.
Come ha selezionato gli italiani?
Ho pensato di fare una sorta di racconto della storia della visione italiana, partendo da un’immagine di tipo umanista legata alla visione giornalistica che parte da Federico Patellani (Monza, 1911 – Milano, 1977), per arrivare a una visione più contemporanea. Nello stesso periodo lavora infatti anche Paolo Monti (Novara, 1908 – Milano, 1982), che utilizza un linguaggio documentario. Si procede poi verso l’invenzione e la manipolazione, come nel caso dei lavori di Silvia Camporesi (Forlì, 1983) e di Paolo Ventura (Milano, 1968), entrambi su Venezia ed entrambi in rottura rispetto alla fotografia più tradizionale. Mentre Camporesi ha mischiato reali immagini di Venezia con immagini realizzate a Little Italy, Ventura ha lavorato su fondi dipinti su cui ambienta degli omettini da lui stesso costruiti.
L’evoluzione della fotografia sull’Italia degli italiani è stata lineare?
Per come ho scelto di presentarla, a metà degli anni ’80 avviene un cambiamento, in sintonia con la nascita della scuola italiana di paesaggio e dopo Luigi Ghirri (Scandiano, 1943 – Roncocesi, 1992) e il suo Viaggio in Italia (1984). Se dal dopoguerra in fotografia esiste un unico linguaggio, a partire da quel momento si affianca una lettura diversa della realtà, non più alla ricerca dell’evento o del momento decisivo alla Cartier-Bresson, ma più meditata, complice la lezione di Ghirri sulla lettura del quotidiano non enfatico, dove “non accade nulla”. È un pretesto, ovviamente: chi fotografa con uno stile di narrazione giornalistica c’è ancora e queste due strade continuano ad esistere anche oggi, parallele.
Nella scelta di alcune fotografie si è fatta aiutare dagli autori?
Conosco molto bene gli autori italiani in mostra e sapevo già cosa sarebbe stato bene nel mosaico che andavo costruendo. Tuttavia sono avvenuti due interessanti cambiamenti in corso d’opera. A Mimmo Jodice (Napoli,1934) avevo domandato l’archeologia campana: lui mi ha dato una serie di ritratti di sculture greco-romane in una sequenza di visi che hanno gli occhi tutti alla stessa altezza. A Mario Cresci (Chiavari, 1942), invece, avevo richiesto i suoi lavori fatti a Matera e in Basilicata negli anni ’70: inizialmente ha accettato, poi, stufo per aver esposto decine di volte quegli scatti, mi ha proposto immagini di quadri fatte in occasione dell’inizio del restauro dell’Accademia Carrara di Bergamo.
Ci sono grandi differenze tra la prospettiva interna e quella internazionale?
Le differenze sono enormi. Gli italiani hanno giocato in casa: molti di loro hanno lavorato nei propri luoghi di appartenenza; altri in funzione di incarichi, amori o luoghi che li avevano affascinati. In ogni caso, sono quasi tutti progetti legati ad un’area territoriale specifica e circoscritta, da Milano a Venezia, da Bologna a Firenze ai paesaggi marchigiani. Il nord Italia è estremamente presente: è stato faticoso selezionare i lavori su Milano, perché ce n’erano moltissimi. Rispetto agli stranieri è stato invece da subito evidente che per quasi tutti l’Italia continua a essere il territorio del Grand Tour, il grande viaggio. Salvo alcune eccezioni di innamoramenti – come per il fotografo russo Alexey Titarenko, che torna a Venezia da quindici anni – hanno rappresentato il viaggio nel sud e le grandi città di interesse storico artistico, Firenze, Napoli, Palermo, Roma, mentre città come Milano e Torino sono difficilissime da trovare nel loro lavoro.
Ha scoperto qualcosa di inaspettato durante la preparazione di questa mostra?
Ho scoperto nuovamente la ricchezza della fotografia italiana. I Riverboom, fotografi fiorentino-svizzeri, hanno fatto per esempio un lavoro che presenta Firenze in un confronto con il resto del mondo: c’è la Chiesa di Santa Croce messa di fianco a un iceberg; le miniature del David di Michelangelo accostare alle statuette del cinese Mao Tze Tung. Si tratta di qualcosa di sorprendente e lontano da caratteristiche museali: abbiamo stampato le immagini su un unico foglio di carta che è stato incollato al muro come se fosse un poster. Nasce così l’accostamento tra la grande foto con passepartout e grandi crismi e una fotografia un po’ più da strada.
Italia Inside Out apre con INSIDE: i fotografi italiani, dal 21 marzo-21 giugno 2015
Foto: in apertura Riverboom, Florence vs the world, 2013 / Silvia Camporesi, Terza Venezia, 2011 / Federico Patellani, Matera, 1953