Uno dei più grandi artisti italiani del Novecento: amato, spesso incompreso. Piccolo prontuario storico-critico prima della lettura dell’ ‘Amalassunta’ di Brandimarte
Osvaldo Licini nasce nel 1894 a Monte Vidon Corrado, nelle Marche. Un paesello di settecento anime, non lontano da Fermo, dove morirà pure, sessantaquattro anni dopo. Di mezzo, ci sta una formazione culturale imbevuta d’Europa: contatti con il Futurismo, la zia che vive a Parigi, ballerina dell’Opéra, l’arruolamento volontario per la prima guerra mondiale, un amore con un’infermiera svizzera, l’amicizia con Picasso e Modigliani, una moglie svedese, tante mostre. Eppure tutto inizia e finisce a Monte Vidon Corrado, di cui sarà anche sindaco per tanti anni.
L’anelito ad una dimensione europea del linguaggio, come per il suo conterraneo Leopardi (e il paragone potrebbe tornare utile in più punti), non si risolve mai in un abbandono della terra natia. Piuttosto, dentro la propria terra, dentro la sua storia, si cala la vastità di riferimenti culturali moderni ed europei. Se italiano, insomma, non significa provinciale, gli Angeli Ribelli possono essere visti come i centroitalici angeli di Sassetta o le figure sognanti di Paolo Uccello rilette attraverso gli occhi di un uomo moderno e colto, aperto e sperimentale, che aveva conosciuto Modigliani e aveva capito che era «grande come Tiziano».
Fino al 1935 il pittore svolge una stupefatta indagine della realtà, in una sorta di realismo favolistico, che a qualcuno potrebbe ricordare quel Calvino cui è intitolato proprio il premio più prestigioso incamerato dall’Amalassunta di Brandimarte ne parla Bonetti qui accanto, ndr) ora in libreria. Sono gli anni delle Avanguardie e del Ritorno all’Ordine: lui partecipa, conosce, si avvicina, ma non aderisce mai. Nell’epoca degli -ismi, Licini rifiuta l’inquadramento in una truppa e l’adesione ad un’ideologia. Al di là delle mode temporanee, seppur incisive, si dedica allo svolgimento interno di un linguaggio personale ed universale.
Gli artisti si potrebbero – con qualche semplificazione – dividere in due categorie: quelli che nel calarsi nel proprio tempo, fino in profondità negli -ismi del proprio tempo, diventano grandi; e quelli che diventano grandi attraverso la sola coerenza con se stessi, e che consapevolmente squarciano come meteore la storia della cultura e lo Zeitgeist del proprio tempo. Ebbene, Licini – come Leopardi – era senz’altro del secondo tipo.
L’avvicinamento, dopo il ’35, a forme più geometrizzanti ha indotto molti a parlare di astrattismo. Eppure, a ben guardare, in quelle forme si ravvisa una mai abbandonata tensione figurativa. Una geometria lirica che significa qualcosa, come spesso suggeriscono titoli eloquenti: «Addentare», «In bilico», «Obelisco»…
Come Morandi, Licini sente l’esigenza di essenzializzare il proprio linguaggio, di pulirlo, risciacquarlo, ma nulla cambia nel tessuto profondo delle opere, le cui geometrie imperfette continuano sempre a stonare in direzione dell’emotivo, a dare corpo all’eterno conflitto tra emozione e ragione.
Così, nell’ultimo periodo – quello degli Angeli e delle Amalasunte, dal ’40 fino alla morte – la levitazione magica del rapporto tra realtà e finzione può poggiare sulle forme essenziali, contemporaneamente trasognate e mordenti, che hanno imposto Licini nel panorama internazionale. Cosa sono i corpi degli Angeli se non le linee dei panorami collinosi delle Marche? Cosa le Amalasunte se non la Luna? Cosa c’è di più vero di un cuore disegnato come da un bambino?
Senza creare una sur-realtà, ma andando al nocciolo del particolare, rimanendo ancorato alla sua terra, essenzializzando il linguaggio, Licini è riuscito a rompere il confine della linea con l’emozione del colore, rappresentando l’universale impossibilità, per l’uomo e per la sua fantasticheria, di stare dentro i limiti di tempo, spazio e conoscenza imposti dalla natura e dalla vita. Che è poi la stessa tensione che corre tra il colle di Monte Vidon Corrado e la vastità dell’Europa…
Al limite tra la gioia di vivere e la certezza della fine, intrisi di pessimismo materialistico, le sue Amalasunte e i suoi Angeli Ribelli raccontano le infinite possibilità emotive dell’uomo di fronte ai segreti delle occulte armonie della materia. Rompendo, non di troppo, il limite della figurazione, Licini è riuscito nell’esperimento di dipingere la poesia dell’origine, della cosmogonia, delle grandi questioni che l’uomo pone alla Luna, «amica di ogni cuore un poco stanco».
Foto courtesy Centro studi Osvaldo Licini