Attore, regista e oggi anche scrittore, Enrico Ianniello, con “La vita prodigiosa di Isidoro Sifflotin”, inventa una nuova lingua e ci porta nel cuore dell’Irpinia con una storia magica
Sedetevi, mettetevi comodi con una bella tazza di caffè in mano. Potrebbe andare bene anche un bicchiere di porto, una tisana, un tè, ma state per fare un viaggio favoloso nel cuore dell’Irpinia, fra le parole smozzicate e l’affabulatoria sintassi della lingua campana, e il caffè – nu bellu cafè – è decisamente più in tema.
Prima di immergersi in questo Sud che non è fatto solo di parole ma anche di fischi (il Sifflotin del titolo, in francese, è il Fischiatore) e di silenzi, diciamo due cose sull’autore perché Enrico Ianniello è prima di tutto un attore: il pubblico televisivo lo conoscerà come il commissario Vincenzo Nappi nella serie con Terence Hill Un passo dal cielo; gli altri lo avranno forse visto in teatro con Toni Servillo e Tony Laudadio o nel film Habemus papam di Nanni Moretti.
Casertano di 45 anni che però vive a Barcellona, Iannielo è il prototipo del giovane italiano talentuoso: sfugge alle etichette, ovvero – per necessità o per passione – lo trovi un po’ dappertutto: a sedici anni voleva farsi prete, poi mentre serviva messa a Giovanni Paolo II ha scoperto che la sua vocazione era più rituale che spirituale e così ha optato per un altro pulpito, il palcoscenico. In seguito si è dedicato al cinema, alla fiction, ha tradotto le opere di Pau Mirò. E infine per confondere ancora più le idee ha scritto un romanzo, La vita prodigiosa di Isidoro Sifflotin.
Se la qualità della società contemporanea è essere fluidi, Enrico Ianniello è sicuramente un artista di qualità. Come lo è Isidoro Sifflotin, un bambino di dieci anni che è nato in un paesino dell’Irpinia con un talento quanto mai eccentrico: è nato con la capacità di far vibrare le corde vocali come gli uccelli e quindi sa fischiare, anzi urlafischiare, come loro. Isidoro diventa amico di un merlo indiano col quale inventa un “fischiabolario”, una lingua fischiata da insegnare ai poveri affinché possano comunicare in codice fra loro e organizzare una rivoluzione.
Nella fascetta che avvolge il libro, Stefano Benni ha scritto: «Finisce che anche tu vuoi essere capace di fare un fischio a conchiglione». Per quanto un po’ goffa, la frase non è sbagliata. Ma non dice tutto: per me, finisce che anche tu vuoi avere una famiglia come quella di Isidoro. Il papà Quirino, un po’ poeta, un po’ sindacalista, che la mattina si fa la doccia con l’idrolitina, scrive lettere d’amore in bagno, inventa parole come “dolceviso” che è una fusione di dolce e improvviso, e fa del suo strabismo una forza perché con gli occhi divergenti vede di più. E la mamma Stella che fa la pasta, ma la fa così buona che tutto il paese la vuole e allora lei impasta, impasta fino a che la casa si trasforma in una casa di pasta: le tende di pasta, i centrini di pasta, le tovaglie di pasta.
Immaginate di unire il realismo magico di Amado con la commedia napoletana di Eduardo, questa è l’infanzia di Isidoro. Fino a quando succede un qualcosa che stravolge tutto: il terremoto dell’Irpinia dell’80: «Quello fu il più grande Sparte e Capisci della mia vita: tutto si spartette, tutto si separò, davanti ai miei occhi, e questa separazione sembrava fatta apporta per farmi capire come è fatta la vita veramente». Da quel giorno «le cose non si possono più dire», Isidoro perde la parola, la sua vita cambia sempre fischiando, e la nostra di lettore perde il sorriso che sembrava ormai scontato.
“La vita prodigiosa” di Enrico Ianniello (Feltrinelli, 2015, pp. 265, 16 euro)
Immagine: Duncan Brown, Meadow Pipit