Immigrazione: i titoli che pesano

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Clandestino, badante: come i media parlano dei fenomeni migratori? Più correttamente di qualche anno fa, dice il sociologo Maurizio Ambrosini, però…

Definire un migrante siriano come “clandestino”, non è tendenzioso o scorretto: è semplicemente sbagliato, falso. Occorre partire da qui per capire come i media parlando di immigrazione, quanto è cambiato negli anni e se in meglio o in peggio.

Le parole sono pietre, recita così il titolo del romanzo scritto da Carlo Levi. Eppure ci capita di usarle con leggerezza. Le si sceglie in fretta, senza passare neppure un istante a riflettere sul loro significato. Poi, altrettanto rapidamente, si decide di scriverle, dirle, scagliarle. In certi casi, non si pensa agli effetti che questo uso improprio della lingua potrà causare. In altri, c’è la precisa intenzione di alterare la realtà . Ogni volta che accade, d’altra parte, c’è qualcuno che soffre.

Le parole, proprio come le pietre, sanno ferire, possono restituire una realtà alterata, influenzano profondamente lo sguardo dell’opinione pubblica.  Raccontare il fenomeno della migrazione usando un linguaggio corretto, non significa rinunciare alle proprie idee e abdicare alla propria opinione in nome del politicamente corretto. Si tratta, piuttosto, di rispettare il tacito patto stilato tra chi comunica un messaggio e chi lo riceve: il primo si serve del codice linguistico per dare espressione alle proprie idee e renderle comprensibili, il secondo si aspetta che a ogni termine corrisponda il significato previsto da un tale sistema.

Maurizio Ambrosini, sociologo esperto dei processi migratori e direttore della rivista Mondi migranti, ha affrontato anche questo tema nel suo ultimo libro Non passa lo straniero? (Cittadella Editore, 2014)

Perché le parole sono così importanti quando si parla di questo fenomeno?
Dietro ai termini ci sono delle rappresentazioni ed è per questo motivo che la questione terminologica è particolarmente rilevante. Definire come clandestino qualcuno che non lo è, significa attribuirgli un’etichetta stigmatizzante. A volte, credo non ci si renda conto dell’importanza che ha la questione. Chi usa impropriamente il termine “clandestino”, spesso non lo fa in malafede: sceglie questa parola nella convinzione che sia corretta. Credo che talvolta si tratti di superficialità, di fretta.

Qual è il significato della parola “clandestino”?
È clandestino chi si introduce in un Paese con documenti falsi e vuole eludere la propria presenza. Per questo, è sbagliato usarla quando si parla di chi sbarca in Italia dal mare: l’arrivo di queste persone, infatti, è sotto gli occhi di tutti. In ogni caso, io suggerisco di sostituire il termine “clandestino” con “immigrato illegale”. Il primo è un giudizio sulla persona, il secondo una constatazione della sua condizione di soggiorno nel nostro paese.

A che punto sono i media? C’è un miglioramento rispetto a qualche anno fa?
Si, penso ci sia più prudenza. Leggendo gli articoli di cronaca nera, noto che la nazionalità di chi commette il reato al centro della notizia non è più nel titolo. Per intenderci, qualche anno fa ci s’imbatteva di continuo in articoli intitolati “Rumeno rapina un’anziana signora” o “Extracomunitario arrestato per … ”. Oggi, si cita correttamente la nazionalità del colpevole nell’articolo ma la si usa sempre meno spesso per costruire titoli d’effetto. In questo processo di cambiamento incide molto anche il cambio della linea politica da parte dei governi.

Oltre al termine “clandestino” quali altre parole sono usate impropriamente?
Penso al termine badante. Un termine riduttivo e svalutante: come se si limitassero a badare, ossia a sorvegliare, gli anziani. Meglio il termine del contratto di lavoro: assistenti familiari, che però non è ancora entrato nell’uso comune. Attenzione: anche la parola tolleranza è da usare con cautela. Indica una virtù debole, priva di una componente attiva. Si tollera qualcosa che non si apprezza, che si percepisce come disturbante. Indica un fastidio: temperato ma presente.

Non c’è, d’altro canto, il rischio di eccedere col politicamente corretto?
La guerra terminologica, talvolta, è esasperante. In Italia, soprattutto, ci si accapiglia sulle etichette. Alcuni antropologi contestano anche il termine “etnico” o il termine “integrazione”. In questo caso credo si tratti semplicemente di definizioni, migliori di altre, che ci aiutano a capirci su certi fenomeni ma si può sempre migliorare.

Se l’uso corretto del linguaggio è così importante, quanto conta che anche chi arriva in Italia abbia la possibilità d’imparare la nostra lingua?
Molto. Purtroppo, però, molte persone che entrano regolarmente nel nostro Paese diventano, dopo poco tempo, irregolari e quindi non possono frequentare le scuole pubbliche. In questo senso, fanno un lavoro importantissimo tutte le associazioni che si fanno carico di questo compito come i volontari della rete Scuole senza permesso.

Foto: Claudia Galeazzi

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