Susanne Bier torna in Danimarca con un thriller forsennato e a tratti confuso, pieno di interrogativi etici importanti ma che finisce per priìvilegiare l’azione
Andreas è un poliziotto e cittadino esemplare: una bella casa in riva al mare, una moglie graziosa e accogliente, un frugoletto appena arrivato a coronare il quadro idilliaco. Simon è invece un collega alcolizzato e divorziato, in cerca di redenzione. Tristan infine è un tossico brutale e violento, che costringe la compagna alla prostituzione e maltratta il figlio neonato. Sull’intreccio fortuito e fatale di queste tre esistenze, apparentemente assai distanti, la regista Susanne Bier, premio Oscar 2011 per In un mondo migliore, costruisce il suo ultimo Second Chance.
Dopo la sfortunata parentesi hollywoodiana (Una folle passione), Bier torna alla natia Danimarca e firma un thriller cupo e crudele, che propone importanti interrogativi etici senza rinunciare alla suspense e all’azione. Una circostanza tragica e inaspettata, infatti, dà il via a una girandola di eventi che ruotano intorno ai due neonati investendo Andreas, Tristan, Simon e le loro famiglie: chiamati a fronteggiare scelte strazianti e imprevedibili, in una spirale distruttiva che non concede sosta né ripensamenti, scopriranno a caro prezzo la differenza tra ciò che è Giusto e ciò che è Bene. La “second chance” del titolo, dunque, è quella che vorrebbero invocare tutti i personaggi, ognuno colpevole a suo modo, sebbene la regista conceda qualche attenuante in più al suo bel protagonista, il glaciale ed enigmatico Nikolaj Coster-Waldau, conosciuto soprattutto per la serie tv Games of Thrones.
Dopo un avvio efficace, teso e febbrile, Susanne si diverte a stupire (forse anche provocare) lo spettatore inserendo una cesura netta, eclatante nella pellicola, un turning point decisivo dal quale scaturisce la frenetica concatenazione di eventi, sempre più rovinosi, drammatici, a volte anche inverosimili, che travolge tutti. Da quel momento l’azione prende il sopravvento e inizia gradatamente a soffocare il ritratto sensibile dei personaggi, da sempre cifra stilistica del cinema della Bier e del suo sodale sceneggiatore Anders Thomas Jensen.
Se nei precedenti Non desiderare la donna d’altri e In un mondo migliore la trama gialla e gli incroci di vite (altro tòpos bieriano) erano il pretesto per indagare sugli smottamenti interiori di personaggi cangianti e tormentati, alle prese con dilemmi disarmanti e mai banali, e lo sono in fondo anche quelli dei tre uomini di questo film, in Second Chance il plot finisce per contorcersi su se stesso, arrivando a confondere, frastornare lo spettatore in un susseguirsi di colpi di scena parossistici. La Bier prova a bilanciare il tono forsennato e un po’ isterico della sceneggiatura con una regia asciutta e minimalista, che rischia però di sconfinare nella piattezza televisiva. Ogni tanto scuote lo spettatore inserendo qualche immagine audace e molesta, quasi sempre legata alla rappresentazione dei corpi inermi di neonati (morti, coperti di feci, abbandonati sul pavimento di un bagno disgustoso, percossi fino alle lacrime). Ma alla fine anche queste visioni perturbanti finiscono per stordire lo spettatore, in un iperbolico gioco al rialzo che, alla lunga, stanca.
Ad accompagnare il racconto, lunghe riprese di paesaggi equorei: e anche l’acqua, solitamente sinonimo di vita, qui è portatrice di morte e si palesa fin dai titoli di testa come monito greve che pesa sui destini dei protagonisti. Un memento mori che scandisce la narrazione e concede qualche istante di (meritato) respiro.