L’arte del selfie / Il selfie dell’arte

In Arte

Il selfie: un pericolo per i musei o un’opportunità? Nasce nelle Filippine un museo appositamente dedicato ai selfie con/in opere d’arte. Follia e basta?

Chindōgu è una parola giapponese per dire “strumento inutile”. Definisce la capacità, portata a livelli ineffabili proprio dai giapponesi, di inventarsi dei gadget geniali quanto inservibili per risolvere alcune seccature quotidiane. Fanno parte della lista oggettini quali il cuscino con il finto braccio per sentirsi amati anche in mancanza di un partner o il cappellino con incorporato un rotolo di carta igienica da utilizzare quando si è raffreddati.

Nel 2015 compare in questa lista di sciocchezze anche il selfie stick, l’asticella utilizzata per farsi gli autoritratti col cellulare. La storia e gli ambulanti cingalesi ci assicurano che pochi oggetti sono invece così utilizzati quanto il bastoncino da selfie.

La mania dello stick ha generato persino un’altra invenzione, sempre a cura dei nostri prodighi asiatici: il museo concepito appositamente per utilizzare il re dei chindogu.

È stato da poco inaugurato nelle Filippine l’Art in Island un museo dove si può entrare in un quadro di Van Gogh o toccare l’orlo della sottana della damina di Fragonard che, volteggiando sull’altalena, esce addirittura dalla cornice.
Invece che opere originali, all’Art in Island si sono inventati le loro versioni in 3D, proprio per permettere ai visitatori – e non cedete all’allettante tentazione di definirli una banda di deficienti – di posare davanti ad essi con i loro selfie sticks.

Non ci sono solo quadri famosi. In realtà la stragrande maggioranza dei dipinti sono l’equivalente tridimensionale di quelle terribili lenzuola con illustrazioni iperrealiste di dinosauri o onde da surf che, negli anni ’80, contribuivano a tante ore di angosciosa veglia dei malcapitati pupi che ci dormivano dentro.
All’Art in Island non c’è dipinto di gattino o di principessa medievale con una spada che non possa essere usato per fotografarsi come se ci si strusciasse contro il pelo dell’animale o come se si fosse trafitti dall’arma brandita. Gli ignari amici a cui verranno mostrate le foto del viaggio filippino possono solo tremare nell’attesa.

Il museo di Manila, però, pone delle domande reali anticipate da un popolo, forse meno educated, ma anche più svelto a cogliere i cambiamenti e a cercare delle risposte pratiche.

Con l’avvento della tecnologia personalizzata, dal PC allo smartphone, all’arte viene richiesta la capacità di adattarsi alle infinite forme creative nate in questi ultimi anni, perché le potenzialità digitali allargano a dismisura i confini di cosa è considerato tale, “arte”.

In questo processo d’infinita democratizzazione esiste anche il problema di come beneficiarne. Del se e del come si possono stabilire dei criteri corretti, o dei limiti, nell’osservare un’opera d’arte.

Rispetto ai selfie, oggi la maggior parte dei principali musei nel mondo ha preso le decisioni più varie. A Madrid è vietato fotografare le opere: figuriamoci fare un selfie. In America musei come il MoMa o il Getty Museum di Los Angeles permettono le foto, ma proibiscono i selfie stick, così come la National Gallery di Londra, per timore che essi possano causare danni alle opere. Al Louvre di Parigi invece vige la regola “bomba – liberi tutti”, ma sembra per poco ancora.

La maggior parte degli intellettuali plaude alle restrizioni, con la spiegazione che guardare un’opera d’arte dovrebbe essere un esercizio da assolvere con calma e concentrazione. È un pensiero giustissimo, forse reso vano dalle orde di turisti che normalmente invadono i musei e che di rado consentono tutto questo raccoglimento. Ma se il risultato di un’eccessiva rigidità  dovesse essere quello di far proliferare musei alternativi come l’Art in Island, più simili a un parco giochi che a un tempio dell’arte, allora bisognerà che questi stessi intellettuali si spremano il cervello per trovare una soluzione migliore che non allontani il popolo del selfie dalle opere dei grandi artisti.

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