Infinito e retorico, “Il padre” di Fatih Akim con Tahar Rahim è un affresco storico sul genocidio turco. Dove i buoni sentimenti devono trionfare a ogni costo
1915, la città è Mardin, oggi sudest della Turchia, all’epoca impero ottomano. Il fabbro Nazaret Manoogian vive lì con la moglie, due figlie gemelle, cognati e parenti. Sono armeni. E i tempi sono complicati: è la Prima Guerra Mondiale, l’impero si allea con austriaci e tedeschi, ma nonostante la vittoria riportata nella battaglia di Gallipoli contro francesi, inglesi, australiani e neozelandesi, i turchi hanno difficoltà nel tenere insieme le diverse componenti etniche. Addirittura le minoranze diventano nemici. In primis gli armeni, oltretutto cristiani. Così vengono rastrellati, gli uomini e mandati ai lavori forzati, poi tutta la popolazione è deportata e massacrata. Un autentico genocidio.
Nazaret sopravvive casualmente, il suo carnefice lo grazia lasciandolo tra i cadaveri, pur con un taglio alla gola che gli fa perdere per sempre la voce. Inizia a vagare, incontra un campo di profughi, scopre che tutta la sua famiglia è stata massacrata. Poi arriva ad Aleppo “adottato” da un fabbricante di sapone turco.
Alla fine della guerra i turchi vengono cacciati, Nazaret scopre il cinema con una proiezione di Il monello di Charlie Chaplin, e finalmente ride salvo poi piangere ripensando alle sue figlie. Scoprirà poi che potrebbero essere vive, perché erano scampate ai massacri, affidate a dei nomadi. Inizia così una ricerca spasmodica che lo porterà in centinaia di orfanotrofi, poi a Cuba infine negli Stati Uniti.
Il padre è un melodramma su sfondo storico, che dura due ore e diciotto minuti, in cui Fatih Akin non ci risparmia nulla. L’agghiacciante campo dei profughi armeni destinati a schiattare è rappresentato con tende strappate che ondeggiano al vento mentre un tramonto viola dà all’immagine di quell’umanità devastata un tocco miserabile di estetica tragica, condita dalla reiterata richiesta della cognata di Nazaret “non farmi più soffrire”.
C’è poi la banalità degli amici che vanno al bordello mentre il nostro eroe preferisce il cinema. Tutto il racconto è all’insegna della retorica e dei buoni sentimenti che devono trionfare. A tutti i costi.
Certo, è fiction, e oltretutto la storia è completamente inventata, pur inserita in un contesto storico documentato. Si arriva così alla questione del genocidio armeno, ancora oggi un tabù in Turchia (sino a poco tempo fa chi lo affermava finiva in galera), mentre altre nazioni hanno ufficialmente riconosciuto quel tragico evento.
Il regista Fatih Akin è di origine turca, pur essendo nato in Germania, e forse proprio questa sua formazione lo ha portato a scrivere e dirigere questa storia di un padre armeno che attraversa mille difficoltà, sopravvive allo sterminio (grazie a un turco umanitario), poi attraversa il mondo più da autentico invasato che da genitore determinato. Se è pur vero che gli avvenimenti narrati risalgono a un secolo fa, l’approccio stilistico sembra essere quello dei grandi affreschi di David Lean, realizzato però fuori tempo massimo e con molto meno talento.
Sembra quasi una sorta di meledizione, la rievocazione del genocidio armeno al cinema. Con poco successo ci aveva provato Atom Egoyan (di origine armena) con Ararat, e aveva coinvolto altri due armeni famosi come interpreti, Aznavour e Bogosian, poi i Taviani con La masseria delle allodole, ora Akin che si è affidato a Tahar Rahim per il ruolo del protagonista.
Tra gli interpreti compare anche la moglie di Egoyan, Arsinée Khanian, che era anche nel film dei Taviani (fa la moglie del barbiere di Cuba), come pure Moritz Bleibtreu che fa l’imprenditore che aveva assunto le due gemelle.
Il padre – The Cut, di Fatih Akin, con Tahar Rahim, Arsinée Khanian, Moritz Bleibtreu