Uno dei drammi più sofferti e autobiografici di Williams, “Lo zoo di vetro”, torna nella bella edizione di Arturo Cirillo con un cast di serie A con Piseddu, Ribatto, Marigliano
Tom si rivolge al pubblico, si accende una sigaretta, vuole parlare. Ciò che sta per esporre non è una semplice testimonianza, un aneddoto con cui intrattenere la platea, ma qualcosa di più: è, all’unisono, ricordo, confessione, rimpianto. Il suo dramma, quasi un elementare connubio di miseria e infelicità, si origina nel passato, nella memoria: dopo l’abbandono del padre, fin da ragazzo, si trova costretto a provvedere ad Amanda, madre dalla personalità ingombrante, e alla sorella Laura, timida per natura e resa ancor più introversa da un handicap fisico ad una gamba.
Naufraghi di un nucleo familiare alla deriva, i tre hanno trovato riparo in un guscio domestico che presto, da rifugio, si è trasformato in gabbia: la quotidianità scandita dall’asfissiante desiderio di riscatto della madre è divenuta intollerabile; l’intreccio dei rapporti si è fatto groviglio inestricabile, grumo denso di un’affettività castrante, claustrofobica. Serve aria, libertà. Ma come conquistare quell’evasione, quel “che” di avventuroso che scardini la monotonia e renda la propria esistenza nuovamente palpitante?
Se si va oltre al biografismo che vuole Lo zoo di vetro come una sorta di memoriale della difficile giovinezza di Tennessee Williams, l’opera del drammaturgo di Columbus esplora la necessaria corrispondenza tra il sentire dell’essere umano e l’immaginario. Per quanto possa sembrare infantile, illusorio perfino fragile – come una delle statuine di vetro che Laura colleziona e che dà titolo al testo – il pensiero di finzione è per l’uomo indispensabile strumento di sopravvivenza: è vita in potenza, è speranza, ma, allo stesso tempo, è valvola di sfogo, sfiato e rappresentazione della propria interiorità.
Ecco allora che non importa se nel racconto di Tom non c’è spazio per alcuna obiettività narrativa: il sentimento (ora tenero, ora ironico, ma sempre, intimamente, immaginativo) comanda, deforma la messa in scena, dà vita a una realtà aumentata, dove personaggi e situazioni stingono la propria concretezza per diventare elementi simbolici, significanti, e, per questo, ancora più veri e consistenti.
Per vincere il confronto con Tennessee Williams – autore insidioso il cui alto coefficiente emotivo rischia, il più delle volte, di tradursi sulla scena in stucchevole patetismo – Arturo Cirillo si affida agli interpreti. Il suo Zoo di vetro è un fulgido esempio di “teatro d’attore”, un’eccellenza simile a quella di Sabato, domenica, lunedì di “servilliana” memoria. Tutti, sul palco, a cominciare dallo stesso Cirillo (ma è necessario citare anche Monica Piseddu, Milvia Marigliano ed Edoardo Ribatto) riescono a restituire con grazia e sensibilità straordinarie le atmosfere del testo, a trascinare il pubblico in una dimensione di trasognata partecipazione.
Gli arredi scenografici, i costumi, perfino la traduzione e il linguaggio adottati da Cirillo, completano l’opera, favorendo la sensazione di essere immersi in un tempo sospeso, in una narrazione universale intessuta di un fascino composto ma irriducibile: avvisaglie che l’attestato di “ classico teatrale” è già dietro l’angolo.
Lo zoo di vetro di Tennessee Williams, regia di Arturo Cirillo. Fino al 19 aprile al Teatro Menotti