Continua lo scambio culturale tra schermi e scena: in questi giorni “12 uomini arrabbiati” da “La Parola ai giurati” di Lumet e “Una pura formalità” da Tornatore con Mauri e Sturno
Cinema e teatro sono due parenti molto prossimi, due metodi complementari e confinanti di esprimersi, due funzioni parallele e due amanti infuocati che hanno sempre più cose in comune:chi ha detto che in scena non si possa fare un primo piano? Dipende dall’attore e dalle luci. Impossibile eliminarne uno di questi due complici, è una bigamia che dura per sempre. E in alcuni casi si fa più vistosa, specie come in questi anni in cui il teatro, a corto di copioni, ha chiesto spesso aiuto ai vecchi film, dopo aver gestito spesso, dagli anni ’40, in comune il patrimonio con autori come Tennessee Williams che hanno servito con onore e successo entrambi i media e molti altri.
Teatro di ogni genere e paese, in Italia forse con maggiore frequenza per una certa crisi di scrittura in parte superata ora con la nascita di molti gruppi giovani che comprendono anche nuovi tentativi di scrittura.
Ma in queste settimane comunque vediamo molte locandine con titoli che appartengono al grande schermo, oltre ai musical di cui si parla a fianco, ciascuno dei quali ha avuto una sua gloria a colori e in Cinemascope, a cominciare proprio dall’evergreen Grease con Travolta e la Newton John. Ma la prossima settimana arriva anche Una pura formalità dal film di Tornatore con Glauco Mauri e Roberto Sturno, ditta inossidabile, a fare i protagonisti nella nota storia in cui kafkianamente un ispettore di polizia interroga un uomo in stato di fermo per sospetto omicidio.
La claustrofobia del film del ’93 con Polanski e Depardieu aiutava lo sforzo di metafisica e la natura intima, teatrale dell’azione aiuta ora la riduzione per il palcoscenico con due attori di rara intensità e di reciproca, interessante, coinvolgente collisione professionale. E poi c’è Favola di Timi che si ispira ai film americani in technicolor e gonne ampie e capelli cotonati degli anni ’50 alla Doris Day, c’è sabato perfino una Anna dei miracoli (nella sala Silvestrianum) e il famoso Zoo di vetro che al cinema ha avuto due versioni, una vintage del ’50 diretta da Irving Rapper, autore melò di culto, con Jane Wyman, Arthur Kennedy, Gertrude Lawrence e il giovane Kirk Douglas rigorosamente in bianco e nero; la seconda è di 37 anni dopo e vede all’opera tutta la famiglia di Paul Newman, il divo alla regìa, la moglie Joanne Woodward nel cast insieme con il giovane John Malkovich, che è stato il personaggio del fratello anche a Broadway.
Ma soprattutto al San Babila va in scena anche con la regìa di Marco Vaccari 12 uomini arrabbiati di Reginald Rose, autore del copione nato per la tv, che fu anche il primo film nel ’57 di un grande transfuga dal cinema al teatro e viceversa, Sidney Lumet e si chiamava La parola ai giurati.
La storia è da giallo sociale e psicologico, un legal thriller in cui 12 giurati devono decidere sulla colpevolezza di un ragazzo nero accusato di omicidio: uno solo, che era allora Henry Fonda, tempra radical, dubita, cogita e conduce il soggetto su altri lidi. Lo stesso soggetto fu poi rifatto dal regista William Friedkin nel ’97 con lo stesso titolo mentre il russo Nikita Mikhalkov ne firma una edizione dal titolo 12 nel 2007. E poi c’è da dire che pochi anni fa un bravissimo Alessandro Gassman fu regista e interprete, in un affiatatissimo gruppo di angry men, della prima edizione teatrale italiana cui ora fa seguito questa con attori giovani e un’attenta regìa di Vaccari, patron del nuovo San Babila, che inizialmente aveva pensato di coniugare il testo tutto al femminile.