Invettiva di un figlio degli anni ’80: ridateci Spielberg, please. (E meno male che c’è Nolan)
Cavalieri lupo e magia nera cinese, schermidori con sei dita e maghi giocolieri, diavoli di cartapesta, viaggi nel tempo, archeologi con la frusta e giovani detective contro mummie e alieni. I pupazzi più belli, i computer più brutti e i cattivi fermati a un passo dalla conquista del mondo dal solito manipolo di eroi, recitati a memoria come l’Italia del Mundial: il leader bello e furbo, il grassoccio grezzo e comico, il nero, il matto, la donna attraente ma battagliera, lo scienziato da casa e il ninja taciturno dal torbido passato.
Del cinema fantastico vissuto da bambino, quello degli esordi goffi ma entusiasti di Spielberg, Lucas, Zemeckis e compagni, ogni figlio degli anni Ottanta serba un ricordo vivo e carico di nostalgia che il passare degli anni non potrà mai scalfire, nella ferma consapevolezza che certe avventure non le racconterà mai nessuno meglio di così. I sognatori di quegli anni sono cresciuti giocando per davvero, innamorati delle Storie con la S maiuscola. Rincorrendosi indistintamente con spade laser e fucili da cowboy, scambiandosi superpoteri come figurine, dandosi nomi in codice e linguaggi segreti, emozionandosi davanti a videogiochi fatti di quadrati grandi come cubetti del lego. E sono rimasti bambini molto, molto a lungo. Lo sono ancora, quando la luce si spegne, la pellicola inizia a girare e l’impossibile non esiste più.
Tra i viaggi sulla Luna di Meliès e gli avatar di James Cameron, il film d’avventura è da sempre luogo privilegiato per il libero sfogo di ogni fantasia trasformata in realtà. Non come semplice illusionismo, al contrario: la magia forse più grande di cui la celluloide si è resa capace è proprio l’essere via via riuscita a trasferire il fascino dell’attrazione spettacolare dal procedimento al risultato. Al pubblico non importa più (né dovrebbe mai importare) come la pellicola possa mostrarci uomini volanti, animali che parlano, o gigantesche creature arrampicate su di un grattacielo, purché continui a farlo, spingendosi ogni volta un passo più in là. Non è semplice. I figli degli anni Ottanta ormai l’hanno imparato bene, al prezzo di speranze disattese a ogni annuncio in pompa magna di reboot, remake, prequel o sequel ad alto tasso di inseguimenti, distruzione e computergrafica.
La fantasia non è affatto semplice. A volerla trasportare sul grande schermo ci si scontra oggi con l’inevitabile paradosso del coinvolgimento emotivo: più il progresso tecnico sostituisce l’improbabile gommapiuma con il realismo del digitale, più torna a farsi forte l’invocazione del pubblico per un cinema in cui l’effetto speciale sia condizione necessaria ma non sufficiente. Un cinema che racconti Storie con la S maiuscola, fatte di personaggi e parole, prima che di esplosioni e astronavi. Lo dimostra ampiamente l’inarrestabile migrazione (e relativo crollo di incassi: quella del 2014 è stata la peggiore estate dal punto di vista economico per il cinema americano dal 1997, con pessime performance soprattutto dei seguiti dei kolossal, 12 in una stagione, record assoluto) dello spettatore cinematografico verso la serie tv.
Un prodotto low budget se confrontato con una fantascienza da multisala-parco divertimenti sempre più improntata al vuoto entertainment: il contenitore non ha valore se privo di un contenuto all’altezza. Che sia proprio il piccolo schermo, oggi, a poter vantare gli scrittori più validi, mentre per la fabbrica dei sogni la sceneggiatura sembra relegata al ruolo di inutile orpello, è lo spettro di una sconfitta per tutti. A cominciare da un’industria ormai impigrita dalla sottovalutazione del proprio target, la cui fedeltà è considerata cosa scontata, con una leggerezza quasi offensiva. Ma, più di ogni altra cosa, è la sconfitta di un pubblico che troppo a lungo ha concesso il beneficio del dubbio a cineasti da fast food, approssimativi e pretenziosi, salvo poi uscire dalla sala ogni volta con la promessa di non cascarci più.
Ecco perché i pochi specialisti dell’action movie “alternativo” come Nolan (Inception, la trilogia de Il Cavaliere Oscuro), Mann (Heat-La Sfida, Collateral), Singer (X Men, Superman Returns) o Greengrass (Bourne Supremacy e Bourne Ultimatum, Green Zone) sono oggi una boccata d’ossigeno.Per la cura e la caratterizzazione di un «impossibile verosimile» che va dalla fantascienza al western, dal poliziesco al fantasy. Per la capacità di sospendere l’incredulità dello spettatore, catturandone non l’attenzione passiva per l’effetto visivo, ma la complicità costante attraverso universi ben congeniati. Sono la dimostrazione che il cinema di genere, se giocato sapientemente, può ancora essere un mezzo privilegiato sulla via che porta al cuore di chi guarda. Le regole, quelle sì, sono semplici: l’usato garantito di stilemi ben collaudati dai narratori che ci hanno preceduto, e la capacità e (soprattutto) la voglia di sorprendere ed emozionare un pubblico che non aspetta altro.
Bell’articolo! Ben scritto, contenuti validi e pienamente condivisibili. Una sana critica verso un genere che negli anni è stato pervaso da film sempre più profit-oriented. Sarebbe interessare sentire come i big di Hollywood “giustificano” il crollo di incassi di questi ultimi anni.
http://www.youtube.com/watch?v=uAShx8scZe8