Arte lombarda dai Visconti agli Sforza, a Palazzo Reale, è gremita di capolavori ma l’allestimento rovina tutto. Poteva essere un kolossal, sembra un b-movie
Alla mostra “Arte lombarda dai Visconti agli Sforza”, curata in Palazzo Reale da Mauro Natale e Serena Romano, si potrebbe arrivare – diciamolo – carichi di pregiudizi. Un po’ per una giusta e naturale diffidenza per un’esposizione legata ai tempi dell’Expo e non a quelli, lenti e imprevedibili, del maturare della ricerca; un po’ per quel titolo, in bilico sul sottile crinale tra omaggio e hybris, la tracotanza che, da che mondo è mondo, porta sventure: si chiamava così infatti la grande mostra organizzata, nel 1958, nello stesso Palazzo Reale, da Roberto Longhi e Gian Alberto Dell’Acqua, uno dei capisaldi della storia delle esposizioni (e della storia dell’arte) novecentesca.
Il confronto con la mostra longhiana corre sotto traccia a tutta l’esposizione. Sarebbe impossibile, oggi, replicare la lista strepitosa delle opere presenti allora: diverse le esigenze conservative, diverso il sistema stesso delle esposizioni artistiche, improntato ormai al “modello multisala”. Eppure, sul piano della ricchezza la mostra di oggi non è certo carente, anzi. Lo sforzo produttivo congiunto del Comune di Milano e di Skira ha permesso di radunare quasi duecentocinquanta pezzi tra dipinti, sculture, oreficerie, miniature, disegni, smalti, medaglie, vetrate, opere di tessitura: un’abbondanza fuori dal comune rispetto agli standard odierni, con prestiti prestigiosi da tutto il mondo, per raccontare due secoli interi di produzione artistica nei territori di Milano (che negli anni di Gian Galeazzo Visconti includevano quasi mezza penisola).
Il percorso dell’esposizione si snoda attraverso cinque sezioni, scandite dalle successioni dinastiche. L’ambizione sarebbe dispiegare davanti agli occhi del visitatore il lento dispiegarsi delle trame dello stile, strappate qua e là dall’improvviso arrivo di artisti forestieri: Giotto e Giovanni di Balduccio dalla Toscana, negli anni di Azzone; i maestri francesi richiamati dal cantiere internazionale del Duomo, avviato nel 1386 per volontà dell’arcivescovo e subito cavalcato da Gian Galeazzo, cui certo non sfuggiva il potenziale propagandistico delle “grandi opere”; infine, a squassare ancora una volta tutto, gli arrivi, nella Milano del Moro, di Donato Bramante e Leonardo da Vinci. La sezione dedicata alla Milano di Ludovico il Moro è però, forse, la meno felice, e il senso di déjà vu con la recente esposizione su Bramante a Brera è forte: diverse opere sono passate direttamente da una mostra all’altra, senza neppure il tempo di disfare le valigie.
L’elenco dei prestiti eccellenti richiederebbe un articolo intero. Da Casalmaggiore è arrivato il Cristo deposto di Jacopino da Tradate, il più grande scultore gotico lombardo; è ghiotta l’occasione di metterlo a confronto, nella sala più poetica della mostra, con il percorso di Michelino da Besozzo, sorta di suo alter ego in pittura di cui si è radunato quasi l’intero corpus (ci sono anche, da New York, l’Adorazione del Metropolitan e l’Offiziolo Bodmer, uno dei capolavori della miniatura lombarda). Si è ricomposto il trittico di Bonifacio Bembo, anticamente in Sant’Agostino a Cremona e oggi diviso tra la città natale e Denver: ci aveva provato, senza riuscirci, anche Longhi nel 1958 (ci si era riusciti invece, per la prima volta, in una mostra a Brera del 1999.
E Arbasino, geniale, sull’Adorazione dei magi: “Come risplendevano di ricami vanitosissimi, coi loro faccioni ordinari, quei giovani Re Magi padani a Denver. Forse i loro discendenti industrialotti stavano sciando e sfoggiando su ad Aspen. Ma l’autore di Officina ferrarese [Longhi] non poteva certo scrivere, settant’anni fa: «ecco un tipico pirlone lombardo, sorpreso in un momento di coglioneria»”)
E poi: mai si erano radunati così tanti pezzi del Maestro della Madonna Cagnola, forse il più intrigante tra gli anonimi del Quattrocento nord-italiano. Da Mosca è giunto uno dei bellissimi (e rari) ritratti di Giovanni Antonio Boltraffio, il più intelligente tra i discepoli di Leonardo; e si potrebbe continuare.
I materiali, insomma, sono da kolossal di gran classe e non mancano accostamenti stimolanti. L’allestimento, però, è da scalcinato b-movie, senza neppure la consapevolezza ironica di un Tarantino. Gli ambienti del piano nobile di Palazzo Reale sono precettati per il “Leonardo” imminente e la mostra è relegata nelle sale anguste del pian terreno, inadatte ad accogliere tanta abbondanza: ne risulta un soffocante affastellamento in cui è complesso mantenere la rotta e le gerarchie qualitative si smarriscono nella confusione: qualcosa, certamente, si sarebbe potuto sfrondare.
Per seguire il filo di una narrazione ambiziosa come quella proposta (posto che abbia senso, oggi, affrontare una campata cronologica tanto vasta) ci sarebbe bisogno di ritmi posati, di spazi ben calcolati che favoriscano i confronti, anche tra tipologie di oggetti molto diverse, e permettano di cogliere continuità e cesure. L’allestimento va in direzione contraria: quasi in ogni sala, lo spazio è ingarbugliato da un accumulo di finte nicchie, archi di cartongesso, paratie, espositori dalle forme più varie (uno, memorabile, è a metà tra un’astronave da fantascienza anni Cinquanta e un tabernacolo riletto in chiave Las Vegas; contiene, tra l’altro, la medaglia di Pisanello con il profilo di Filippo Maria, l’ultimo dei duchi Visconti). Sui muri si alterna una micidiale ridda di colori che non pare rispondere ad alcun criterio (vado a memoria: rosso porpora, due tonalità di grigio, giallo senape, verde bottiglia, blu elettrico, oro…). E poi: cartellini difformi tra loro (la data è riportata solo a volte); impossibilità di scoprire gli estremi biografici degli artisti presenti; riproduzioni fotografiche esposte accanto a opere vere. Nella prima sala i tondi con le teste di Sforza e Visconti sono appesi senza rispettare la successione cronologica: forse avrebbe avuto senso metterli in ordine, almeno in ossequio al titolo, così storico, della mostra. Non mancano musica d’epoca in sottofondo e testi didattici stampigliati su finti stendardi da film peplum; e, anche qui, si potrebbe continuare…
Un’ultima sala, in appendice, presenta una bella documentazione fotografica della mostra del 1958: il nitore dell’esposizione di allora confrontato con la chiassosità ingombrante dell’allestimento di oggi non fa che aumentare il rimpianto per ciò che questa mostra poteva essere, e non è stata.
Arte Lombarda dai Visconti agli Sforza, Palazzo Reale, fino al 28 giugno 2015
Foto: Michelino da Besozzo o Stefano di Giovanni, Madonna del Roseto, 1420, Verona, Museo di Castelvecchio