La morte di Judith Malina eroina con Julian Beck del gruppo americano rivoluzionario teatrale che conquistò il mondo negli anni 60 abbattendo ogni parete e sfilando contro le ingiustizie
Venerdì notte, 10 aprile, nel disinteresse più o meno generale dei nostri media se ne è andata, nel senso che non tornerà, a 88 anni in una casa di riposo nei pressi di New York, Judith Malina, storica fondatrice con Julian Beck (cui è sopravvissuta per ben 30 anni, cercando di far andare avanti la Baracca) del Living Theatre, uno dei gruppi teatrali più lungamente e saldamente e oggi un poco anacronisticamente rivoluzionari del secondo 900. Ma erano stati tra i primi a diffondere il verbo di Stanislavskji, dopo l’Actor’s Studio, coniugandolo alla posizione radical democratica della politica anti nixoniana.
Dopo la recente scomparsa di Ellen Stewart, anima del Cafè la Mama di New York, un altro volto storico della contro cultura americana se ne va; tra l’altro la Malina era stata prestata anche al cinema ed era stata la nonna della Famiglia Addams nel film tratto dalla serie tv.
Il Living era una firma, un marchio, un modo di essere dentro e fuori la scena, di vivere e recitare e fingere, era qualcosa di vivo come dice il nome, spesso di polemico, contro il sistema, nei famosi Sixties anche se il loro impegno nasce prima. Erano così malvisti dal potere costituito della società di Broadway che il gruppo non aveva mai avuto sovvenzioni né tanto meno pensioni in una società poco propensa al welfare, tanto che la vecchia Judith Malina, ormai monumento di se stessa sopravviveva aiutata dagli amici storici (da Bob Dylan ad Al Pacino), avendo anche smesso, per ragioni di età, di viaggiare.
Quando veniva e soggiornava in Italia era spesso ospite di comunità teatrali, gruppi conosciuti giovani, del Teatro dell’Elfo a Milano e di Fernanda Pivano che di quella compagnia era stata una delle prime entusiaste ammiratrici e forse l’ultima a ricevere la Malina in salotto di amici dove volavano nell’aria palpabili memorie di folli nottate.
Il Living era la libertà dell’azione teatrale in nome dell’emozione, anche se gli insegnamenti venivano da Piscator e quindi dalla scuola brechtiana. A meno che fra di voi non ci siano dei Revenants, è difficile che abbiate visto dal vivo uno dei loro spettacoli a meno di non recuperare L’agonia, episodio di Bertolucci del film del ’69, Amore e rabbia, in cui la compagnia offre una propria lettura della parabola del fico sterile. Il Living Theatre, gruppo made in Usa fondato nel ’47 porta come referenze il ’68 tutto, le proteste per il Vietnam, gli hippie, aria di Hair ed Easy rider, di marce per la pace, di John Lennon e altra varia umanità: non a caso coevo del Piccolo Teatro che, sempre non a caso, fu il primo ad invitarli a recitare in Italia nella sua sede storica di via Rovello.
In locandina The connection, il 19 giugno 1961, dramma sull’attesa di un gruppo di drogati, forse Grassi si era fidato delle ascendenze brechtiane, ma non era certo il loro “teatro d’arte per tutti”. Il Corriere della Sera pubblicò, per questo e un secondo spettacolo, due cronache a una colonna, poche righe senza firma del critico titolare (Raul Radice) scrivendo di qualcosa di spregiudicato, di alto interesse, al di sopra dei moduli ma alla fine assai festeggiato dal folto pubblico, come si diceva una volta. Un Cappello pieno di pioggia di Gazzo (sulla locandina dell’Odeon censurato in Gazo) con Albertazzi smanioso per farsi e la dolce Proclemer che lo carezzava, diventava rispetto alle smanie in diretta del Living uno spettacolo per famiglie.
Il Living non scherzava, usciva dalla famosa quarta parete (Ronconi allora faceva ancora l’attor giovane in The e simpatia) e gli attori si propagavano (unico verbo possibile) in platea, spesso strisciando e cogliendo di soppiatto scarpine firmate di impaurite signore radical convenute all’appuntamento anche modaiolo col gruppo più off e chiacchierato degli States, propenso alla nudità non solo intellettuale.
Perché poi il gruppo fui ospite della Biennale e tornò a Milano, nella sala off ma centrale e piena di stucchi di Palazzo Durini, storica dimora della famiglia del maestro Toscanini: recitarono Mysteries and smaller pieces nel ’64 quando erano già quasi mitici e i loro titoli facevano il giro del mondo, dall’Antigone di Brecht a Paradise now, frequentando anche autori ufficiali come Lorca, Cocteau, Strindberg, Racine, la Stein, William Carlos Williams e perfino Pirandello di cui si diceva fossero debitori (come tutti, nessuno escluso). “Vita, rivoluzione e teatro” e in queste tre parole Beck e Malina (ebreo americano lui, ebrea tedesca naturalizzata Usa lei) sintetizzavano la rivolta contro la società attuale dei roaring 60, dando via libera all’immaginazione, all’improvvisazione, pretendendo la complicità totale anche sensoriale oltre che ideologica della platea.
Divennero cult completamente, dopo molti anni di professionale, metodica, preparazione professionale, allo scoppio del 68: il Living predicava la non violenza e il libero amore, ma nel ’63 gli attori erano stati costretti ad espatriare in Europa inseguiti dall’accusa di evasione fiscale, in realtà reputati pericolosi per di chi non vedeva bene i cortei di neri, studenti, pacifisti.
E oggi quindi siamo più poveri senza il Living, e senza Strehler, Ronconi, senza Kantor, Chèreau, Gruber, grandi protagonisti delle rivoluzioni teatrali che non sono più qui, ma convivono nella memoria e nella tradizione orale che è il vero patrimonio di ricordi da riciclare sera dopo sera nell’esperienza viva del teatro, nel tessuto sociale di uomini che si trovano con altri.