Che magnifica lezione di italiano discutere della Resistenza in classe. E, in cambio, imparare molto delle primavere arabe o dell’opposizione in Senegal
Che senso ha fare una lezione sul 25 aprile, sulla Liberazione, in una scuola di italiano per migranti? Dipende da che cosa intendete quando parlate di insegnare una lingua: se intendete trasmettere un insieme di regole grammaticali, modi e tempi di coniugazione di verbi, preposizioni, concordanze di nomi, se cercate il suono pulito, una lingua “bella” e “detta bene”, allora probabilmente non c’entra niente. Ma per noi la lingua è sempre stato più di questo: per noi, come per molte scuole, insegnare italiano significa prima di tutto offrire a qualcuno la possibilità di esprimersi, più o meno correttamente, di comunicare, e quindi di relazionarsi, di comprendere quello che lo/la circonda e che è spesso veicolato dal linguaggio. Significa uno strumento per acquisire diritti, per poter rivendicare appieno la possibilità di vivere e partecipare a un territorio.
Ecco che allora, l’idea di costruire una lezione di italiano su quello che significa il 25 aprile assume senso, e un senso profondo. Perché parlare di Liberazione per noi non vuol dire, a sua volta, parlare solo dei fatti storici, della guerra (che pure raccontiamo ai nostri studenti e studentesse), ma significa proporre loro il tema dei diritti, della lotta per la loro conquista e per un sistema che garantisca davvero democrazia e partecipazione: una lotta che in Italia ha avuto un suo momento importante con la Resistenza ma che vediamo organizzarsi continuamente anche in altre parti del mondo. E così spesso è proprio da lì che partiamo, o che arriviamo, aprendo la discussione su un tema dove loro sono competenti tanto quanto noi, talvolta anche di più essendo magari stati parte di lotte di liberazione nel proprio paese, magari essendo dovuti scappare dalla propria casa proprio per la militanza politica.
Ricordiamo molto bene la lezione sul 25 aprile del 2011, durante le primavere arabe, quando i nostri studenti egiziani e tunisini si illuminarono vedendo le immagini di piazza Tahrir e di Tunisi, che avevamo scelto per introdurre l’argomento della Liberazione. O ancora, l’anno dopo, quando alcuni studenti senegalesi presero parola a metà lezione, mentre raccontavamo che era stato grazie ai partigiani che le truppe tedesche e Mussolini erano stati cacciati e respinti, dicendo: «Anche noi stiamo cacciando il nostro presidente, lui vuole fare una dittatura – termine appena imparato – ma noi non vogliamo». O, infine, la difficoltà di alcuni ragazzi srilankesi (cingali e tamil) nel discutere liberamente di questo tema, il peso e il dolore di una guerra civile fortissima e ancora in corso all’epoca.
Sempre, durante le ore di scuola, noi insegnanti contemporaneamente spieghiamo e impariamo qualcosa. Ma questo è tanto più vero durante lezioni come quelle in vista del 25 aprile, quando si raccontano storie, personali e/o di interi popoli, che in altre situazioni avrebbero fatto più fatica a emergere e/o di cui noi ignoravamo completamente l’esistenza. Si attiva un reale scambio di conoscenze e esperienze, la lingua acquista il suo ruolo fondamentale di veicolo del racconto (di sé e non solo), e spesso i ragazzi e le ragazze si ritrovano in quei momenti a fare discorsi, a manipolare la lingua in un modo impensabile in un’altra lezione: cercano parole che in italiano non avevano mai pensato di usare, le annotano, se ne appropriano e hanno così degli strumenti in più per raccontarsi, al di fuori di quello cui troppo spesso sono ridotti (a partire dal piano normativo) ovvero la provenienza e il lavoro. Allo stesso tempo, parlare della lotta di Liberazione, della Resistenza, di quello che hanno significato per l’Italia e per l’Europa intera il nazismo e il fascismo, serve loro per fare chiarezza su che cosa successe in quegli anni sul nostro territorio, su nomi che magari hanno già sentito ma che non sanno collocare: una storia che torna di attualità oggi, con rigurgiti fascisti e razzisti che spesso sfociano in violenza e attacchi proprio verso i migranti.
Ecco allora che per noi, parlare di Resistenza a scuola significa costruire una memoria collettiva che sia premessa di partecipazione, di consapevolezza, di diritti: significa costruire attivamente quel meticciato che siamo convinti formi oggi la nostra metropoli e che si fonda sullo scambio, la condivisione e il mutuo soccorso.
Le e gli insegnanti della Scuola Abba Abdoul Guibre
Foto: Alessia Manera
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