Il famoso testo manifesto del pessimismo universale in una versione dèmi napoletana con Lello Arena dispotico su sedia a rotelle: Luis Pasqual insegna come “regredire”
Scacco matto. Quella di Finale di partita è sicuramente una situazione in fase risolutiva: Hamm è un uomo cieco su una poltrona che, come un re, impartisce ordini; sta nascosto, arroccato, nella sua dimora-fortezza eppure sanguina come se portasse sul corpo i segni di una lunga, estenuante, battaglia.
La sua lotta è quella di tutta un’umanità costretta a combattere contro l’insensata sofferenza della vita, contro un mondo in disfacimento, in cui il proprio genere d’appartenenza è il primo nemico da cui guardarsi.
In tali circostanze sembra quasi sensato che l’azzeramento, la fine, per dirla in parole semplici, sia l’unica prospettiva, il solo esito possibile di questa faida universale. Ma in che modo si può vivere nell’imminenza della fine? Come si deforma la natura umana compressa sotto la gravità di tale consapevolezza? E soprattutto: come ci si è arrivati?
Il nichilismo di Samuel Beckett è cosa risaputa: basta la frase “E intanto si va avanti” – pronunciata a più riprese nello spettacolo –, a cui segue il monotono ripetersi di eventi già accaduti, a rivelare la visione pessimista dell’autore irlandese. Il bersaglio primo della pièce è infatti il fondamento del credo delle magnifiche sorti progressive: la nozione di evoluzione. Guardare alla storia come una linea retta in cui l’asse temporale si sovrappone a quello evolutivo è solo un inganno, un’auto-rassicurazione assai indulgente (per non dire vigliacca). L’uomo può tornare indietro, imbarbarire: eventi storici come la seconda guerra mondiale – a ridosso del 25 aprile è giusto ricordarlo – ne sono vivide testimonianze e non è certo un caso se i genitori di Hamm, mutilati alle gambe, accennano a un enigmatico incidente a Sedan, nelle Ardenne, luogo di una storica battaglia nel 1940.
Il tema della regressione emerge in maniera netta ed efficace nella rappresentazione firmata da Lluis Pasqual, rubando forse la scena a quella napolitanità che doveva essere la vera novità, il balsamo con cui rigenerare il capolavoro beckettiano. Ecco allora che l’espressività di Lello Arena, qui assoldato nel ruolo del dispotico protagonista, rievoca il bizzoso e puerile Alboino di Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno, più di quanto il costume di scena di Gigi de Luca riesca effettivamente a instaurare un nesso rilevante con la maschera di Pulcinella.
Il rapporto con Napoli rimane dunque accessorio: relegato ora al fatalismo, ora all’ironia, non riesce a trovare una collocazione precisa né in un testo che fa dell’indefinitezza astratta la conditio sine qua non del proprio significare, né in un complesso scenografico sobrio e disciplinato. Qualche incertezza interpretativa e una regia fin troppo trasparente fanno sì che quando cala il sipario l’applauso convinto resti a mezz’aria, quasi in sospeso. Ma non c’è da scoraggiarsi: uno stallo, gli scacchisti lo sanno bene, è sempre meglio di uno scacco matto.