Il seguito dell’epopea indiana per star inglesi di terza età (impeccabili: Nighy su tutti) manca d’originalità. E i nuovi innesti arrancano tra fiori e danze
Dopo tre anni e 135 milioni di dollari guadagnati in giro per il mondo, il cast del fortunato Marigold Hotel, film inglese uscito nel 2012, torna in un sequel chiamato, lapalissianamente, Ritorno al Marigold Hotel. Il titolo è ingannatore. Tutti gli allegri protagonisti non se ne sono mai andati dal loro bellissimo albergo, un po’ fatiscente, alle porte di Jaipur nel Rajasthan.
Nella storia Judy Dench, Maggie Smith, Bill Nighy, Ronald Pickup e Celia Imrie sono rimasti in India a difendere fieramente il loro diritto a rifarsi una vita una volta arrivati alla terza età, quando si hanno meno soldi e meno forze per far fronte alla fatica di esistere. L’unico dei protagonisti che non ritroviamo nel sequel è Tom Wilkinson, che nel film precedente muore per un attacco di cuore, felice. Ai soliti noti, si aggiunge invece Richard Gere, nella parte di un ispettore alberghiero in incognito. Spiace dire che il cambio non è favorevole.
Nel racconto, la presenza di Gere è giustificata dal fatto che Sonny (Dev Patel), il giovane direttore del Marigold Hotel in procinto di sposarsi con la fidanzata Sunaina (Tina Desain), ha deciso di espandersi e cerca appoggi finanziari per aprire un secondo albergo. E insieme alla signora Donnelly (Smith) è negli Stati Uniti a caccia di un finanziatore. Ne trovano uno apparentemente interessato all’operazione, ma che prima di decidere definitivamente pone come condizione l’invio a sorpresa di un ispettore.
Quando Richard Gere si presenta alle porte dell’hotel, Sonny è convinto che sia lui l’uomo inviato per controllare gli standard del Marigold e lo accoglie con grandi cerimonie, disdegnando invece un’altra ospite (Tamsin Greig) giunta nello stesso giorno, che appare poi essere la vera inviata della finanziaria. Intorno a questa flebile vicenda si affannano gli altri protagonisti, ai quali non accade niente di incredibilmente nuovo. Per loro il sequel è solo la tavolozza sulla quale poter spennellare con leggerezza le loro idiosincrasie e i loro desideri.
Il film è diviso virtualmente in tre parti, che coincidono con lo sviluppo dei preparativi e le celebrazioni del matrimonio fra Sonny e Sunaina. L’unione dà al regista John Madden e allo sceneggiatore Ol Parker il pretesto per abbondare in dettagli in stile bollywoodiano, con dovizia di balletti sulle note di musiche punjabi style.
Ma se nel primo Marigold Hotel l’esotismo era la base sociologica su cui costruire un film che si poneva domande consistenti come la difficoltà a invecchiare nelle società occidentali e la necessità di espatriare per trovare nuovi ruoli e ulteriori possibilità, in Ritorno a Marigold balletti e corone di fiori servono solo a coprire l’inconsistenza del racconto, che mostra i suoi punti deboli soprattutto nei nuovi personaggi come Gere e la Greig.
Resta la bravura dei migliori attori inglesi della vecchia guardia, qualche battuta divertente, l’illusione che il sesso nella terza età sia una faccenda molto più semplice e godibile della contorta giovinezza e molti cortili zeppi di lucine appese a illuminare di tanto in tanto un film altrimenti scontato.
Menzione speciale a Bill Nighy per il suo guardaroba perfetto, fatto di giacchette tagliate impeccabilmente, camicie del profondo blu che rimangono abbottonate anche nel caldo tropicale e pantaloni allacciati sul fianco come certi gentiluomini facevano un tempo. Ineffabile.