Reduce dal successo di Birdman, di cui ha composto la colonna sonora, il batterista messicano ha convinto anche Milano con la sua Migration Band
Di Antonio Sanchez impressiona soprattutto l’abilità nel calibrare alla perfezione la forza di ogni colpo, la disinvoltura con cui riesce a passare dal più impercettibile ticchettio a poderose muraglie sonore, estraendo suoni di uguale pienezza da ogni centimetro della batteria, comprese le aste metalliche delle meccaniche. Il risultato è un fittissimo mosaico ritmico dove tutto trova il proprio posto, dalla rullata furibonda alla minima vibrazione di un armonico: la batteria è un’orchestra.
Proprio il pensiero di un’orchestra deve aver spinto il regista Alejandro Gonzáles Iñárritu a chiedere a Sanchez — messicano, classe 1971, tra i batteristi jazz più celebrati della sua generazione — di comporre improvvisando la colonna sonora del film Birdman; esperimento straordinario che è valso al musicista numerosi premi e apprezzamenti, nonostante l’esclusione dagli Oscar — dove pure Birdman ha trionfato in quattro categorie.
Domenica 26 aprile, di fronte al pubblico estasiato del Blue Note, Sanchez ha suonato per oltre due ore, accompagnato dal gruppo con cui lavora ormai dal 2011, e che dal primo album pubblicato dal batterista come leader (l’acclamato Migration, del 2007) prende il nome di Migration Band: Seamus Blake al sax tenore, John Escreet al pianoforte e al rhodes, Matt Brewer al contrabbasso. Con questa stessa formazione è atteso per quest’anno un nuovo disco, che conterrà un’unica suite di sessanta minuti, The Meridian Suite.
Il set alternava due standard (Nardis e I Mean You, suonata come bis e completamente trasfigurata) a composizioni originali dello stesso Sanchez, estratte dal suo ultimo disco, New Life (2013).
A dominare sulla performance, al di là del virtuosismo dei singoli, è la superba gestione del tempo e del ritmo, su cui Sanchez sembra quasi giocare, accelerando, decelerando, componendo e decomponendo, imprimendo alla resa dei brani un movimento ondivago e tortuoso che trascina e sorprende (con un break inaspettato, o con l’entrata prepotente di un groove in 4/4 in mezzo ai poliritmi). La sintonia tra i musicisti è perfetta: dietro alle lunghe improvvisazioni si intravvede sempre una trama — una frase all’unisono, un accento marcato in un certo modo, la ripresa di un tema — che fa da esoscheletro al fluire degli assoli. All’uscita il ritmo, ancora nella testa, si confonde con quello della pioggia battente.