Che tipo, quel Tessa

In Letteratura, Weekend

Curioso e sgomento: così guardava Milano e il suo farsi e disfarsi. Mauro Novelli, curatore de “La rava e la fava”, ce lo racconta

Quella di Milano è una storia infinita tra amore e odio. Un formidabile termometro sui mutamenti urbanistici e morali che, già all’inizio del secolo scorso, il poeta Delio Tessa aveva intuito. A lungo dimenticato, riscoperto grazie a un critico del calibro di Dante Isella, ma spesso frainteso e ridotto a macchietta – un uomo mingherlino, vestito fuori moda, con una pesante montatura da miope – mentre nel 1932 Delio Tessa componeva i versi del suo capolavoro L’è el dì di Mort, alegher! scriveva anche articoli, ritratti e reportage frutto del suo inarrestabile peregrinare per le vie e le periferie di Milano, una topografia colta con realistica e ironica nettezza. A condurci con lo sguardo dell’autore nella Milano degli anni Trenta è Mauro Novelli, curatore del volume La rava e la fava. 50 prose disperse (Giampietro Casagrande editore) che contiene molti testi sinora sconosciuti  e che, domenica 16 novembre ,sarà ospite a Bookcity (insieme a Ambrogio Borsani e Maurizio Cucchi, Villa Necchi, ore 11): «Ovviamente la Milano di Tessa non c’è più, ma rimane il palinsesto di contraddizioni, di spinte moderniste e sfide di cui la città è ancora lo specchio». Per rendersene conto basta leggere l’incursione tessiana alla Fiera Campionaria, dove a sera, le persone: “non escono, fuggono, corrono all’impazzata all’assalto dei tram per non perderli, per trovare un posto a sedere. Ci vanno senza entusiasmo, la lasciano senza rimpianto”. Più o meno quello che succede ancora oggi ai pendolari di fashion week, happy hour e altri imbonimenti contemporanei.

A proposito di Fiere ed eventi, cosa penserebbe Tessa dell’Expo?

Avrebbe un atteggiamento ambivalente. Sicuramente proverebbe orrore per tutto questo movimento colorato, ma sono sicuro che ci metterebbe il naso. Come lo ha messo dappertutto. Tessa apparteneva alla Milano liberale schiacciata dal tallone fascista, guardava con sospetto alla modernità che a quell’epoca apparteneva alla retorica fascista e che lui vedeva come una strada verso il baratro della guerra, ma non era un nostalgico che si barricava in casa a lucidare le vecchie memorie. Nonostante il suo motto fosse il verdiano “Torniamo al passato e sarà un progresso”, egli esplora i territori della modernità, è consapevole che Milano è una città che non ha allori su cui riposare, è una città che prende sempre la rincorsa che costringe e si costringe alla sfida. Milano è il vortice della modernità e se questo non piace, conviene andare altrove.

Tessa invece rimase. Ma più che partecipare sembra osservare in disparte la Milano che cambia.

E’ facile vedere in Tessa un nostrano Charlot, che sostituisce al bastone il vecchio ombrello a becco del padre. Lui stesso ha contribuito a creare di sé quest’immagine, definendosi nelle poesie un avvocatucolo. In realtà egli era dentro gli ambienti più importanti della Milano dell’epoca, era amico intimo di Toscanini, conosceva bene Luigi Rusca, allora direttore editoriale della Mondadori, frequentava gli avvocati più in vista. Questa messa in scena faceva parte del suo personaggio che guardava curioso e sgomento una città che cambiava in fretta. Guardava e non ci stava: non possiamo dimenticare che quelli erano gli anni del fascismo, alle cui mani il suo mondo si era consegnato. La sua voce di dissenso non poteva che esprimersi clandestinamente, ma lo stare in disparte significava anche poterne mettere in luce tutte le contraddizioni. Contraddizioni che erano anche le sue: se da un lato era inorridito di fronte a alla modernizzazione che vedeva come una disumana versione del fordismo, dall’altra ne era segretamente affascinato. Provava orrore e attrazione insieme, come quando racconta la sua visita a San Siro, per la partita Italia-Inghilterra e rimane estasiato da 60 mila ombrelli che si muovono ritmicamente sotto la pioggia.

Per noi che ci accostiamo oggi a leggere Tessa, quello che stupisce è la sua prosa: frasi brevi, battute, puntini di sospensione… Nulla a che vedere con il Tessa poeta dialettale.

Nella poesia, Tessa e il dialetto sono un tutt’uno. Ma il dialetto non è mai uno strumento della nostalgia. Quando Tessa era giovane, a Milano tutti parlavano il dialetto milanese, poi a un certo punto la classe aristocratica e borghese ha abbandonato questa lingua e Tessa vedeva in questo la volontà di una divaricazione, di una frattura sociale in quella città-famiglia in cui lui credeva. E’ lo stesso stato d’animo che nelle prose lo fa inveire contro i consiglieri delegati e capitani d’industria. Non perché Tessa fosse un rivoluzionario, magari di ascendenza socialista. Ciò che Tessa condannava è la religione del profitto, il bieco e spietato affarismo subentrato all’industriosità, su cui le generazioni precedenti avevano eretto il mito della capitale morale. Ma ciò che lo rende estremamente attutale è che non lo fa con tono moralistico, ma con un guizzo ironico, una battuta dialettale, in una prosa che assomiglia molto a quella giornalistica attuale.

“La rava e la fava. 50 prose disperse” di Delio Tessa, a cura di Mauro Novelli (Casagrande editore)

Foto tratta dal libro “La rava e la fava”

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