Enrico Castellani e Valeria Raimondi in “Jesus” parlano del marketing d’ipocrisia sotteso alla figura di Gesù in uno spettacolo provocatorio, poco blasfemo e molto doloroso e pop
Definire Babilonia Teatri un’associazione scenica e azzardato e vagamente impiegatizio – con tutto il rispetto possibile, s’intende. Babilonia Teatri, allora, si potrebbe sintetizzare in maniera differente. Inedito modo di fare teatro? Inedito forse no, singolare ed eccentrico probabilmente.
Del resto loro stessi ricercano (come da dichiarazione sul sito, che Claudia Cannella sul Corriere compendia giustamente come manifesto poetico-estetico) un teatro pop, un teatro rock, un teatro punk. I nostri spettacoli sono dei blob teatrali, delle playlist cristallizzate. Uno specchio riflesso. Sembrerebbe la trama di un eventuale e mai realizzato delirio di Harmony Korine, ma è invece una sorta di dichiarazione di guerra a firma Valeria Raimondi ed Enrico Castellani, che di Babilonia Teatri sono direttori e fondatori, arrivati alle cronache di spettacolo grazie a lavori come – tra gli altri – Made in Italy (premio Scenario 2007 e candidato all’Ubu 2008 come novità italiana) Pornobboy (Ubu speciale 2009) e The end (Premio Ubu 2011 novità italiana), corrosivi bigini sulle contraddizioni più assurde, dissacranti e luminescenti della nostra contemporaneità.
Lavori che incidono sul reale e lo trascendono con suoni, suggestioni, visioni e figure, in perfetta aderenza con il manifesto iniziale e con l’intenzione, sacrosanta, di lavorare sul pop come dispositivo imprescindibile per condensare la crisi del nostro tempo. Non sono i primi a farlo, e non siamo abbastanza ingenui da sostenere che saranno gli ultimi, ma nel loro ultimo Jesus, in scena al teatro dell’Elfo fino al 10 maggio e scelto da madame Emma Dante per il 67° ciclo di spettacoli classici al Teatro Olimpico di Vicenza, il focus della loro ricerca si concentra sul grande eletto: Gesù, Cristo di Dio, il Redentore.
Gesù, le contraddizioni e le consumate ipocrisie di chi canta le sue lodi esplodono nell’invettiva di Valeria Raimondi, Enrico Castellari e Vincenzo Todesco: un atto di dolore verso un patrimonio culturale intero, trasversale e umanissimo, che ha preso la figura di Gesù per farne vessillo spersonalizzato e a-critico, sussiegoso e onnipresente. Convinzione sancita dal lancio infinito di santini sul pubblico, che si trova immerso nella canonizzazione iconografica tascabile del figlio di Dio, mentre le parole di Enrico Castellani vengono pronunziate con estrema rabbia da Valeria Raimondi, dall’alto dei suoi tacchi a spillo e delle molteplici trasformazioni cui è scenicamente devota: bambina, assassina, fedele, mangia-chiesa.
Je suis Jesus, verrebbe da dire. Sulla scena Raimondi canta e balla l’inno a un agnello di Dio che, ma che scalpita, non ha pietà e alcuna intenzione di smacchiarci dai peccati del mondo. La dilaniano le note di Jesus Christ Superstar, di Personal Jesus dei Depeche Mode, di Hallelujah di Jeff Buckley: brani appropriati, brani cattivi, brani glorificatori. Importa? Non è detto. Lo spettacolo di Babilonia Teatri non è blasfemo ma dolorante e doloroso, non odia Gesù ma l’umano che ne ha distrutto il potenziale incognito di salvezza; Jesus è arrogante, bizzoso, inascoltato.
Sembra quasi rimproverare, ma in fondo non è così; e il lavoro di ricerca sul pop, ancora una volta, diventa occasione – per quelli di Babilonia – di reperire un solido appiglio civile cui rimandare sussulti e provocazioni. Il loro teatro è arrabbiato e semplice, e in fondo piace anche per questo. E non solo.
Jesus, di Valeria Raimondi, Enrico Castellani e Vincenzo Todesco, all’Elfo Puccini fino al 10 maggio