Dopo il disastroso terremoto, Renzo Freschi ci racconta lo sciamanismo del Nepal, quasi incontaminato e ancora in ottima salute, dopo millenni e anche dopo la catastrofe
Incontro Renzo Freschi nella sua galleria dove è in corso la mostra “Sciamani del Nepal”. Do appena un’occhiata allo splendore dei costumi, degli oggetti rituali, delle fotografie, perché mi preme chiedergli se qualcosa è rimasto dopo il terremoto del 25 aprile scorso, che continua a minacciare il Paese.
«Probabilmente i danni sono limitati, sono valli quasi inaccessibili, chiuse da montagne altissime: le costruzioni sono essenziali, adatte a luoghi così impervi. È lo stesso motivo per cui una cultura così arcaica come quella dello sciamanismo si è preservata dalle influenze indù, buddiste, musulmane. Non completamente dalle contaminazioni, però: per esempio la gente in costumi tradizionali che vedi nelle mie fotografie ormai si mette anche quel che trova, jeans, magliette sintetiche, giacche a vento.
Gli oggetti rituali, come i tamburi, le brocche, se sono stati distrutti o danneggiati dal terremoto possono essere riparati o rifatti modificando utensili moderni. In parte si perde la bellezza del manufatto antico, ma resta l’utilizzo rituale, perché la fede nella necessità di propiziarsi la potenza delle forze naturali è ancora fortissima e viene rafforzata da cataclismi come questo».
Più che una ricerca antropologica, questa mostra rappresenta un’esperienza personale con un mondo autentico, arcaico e affascinante che sopravvive tuttora in Nepal, nonostante la medicina moderna e i cambiamenti sociali.
Come ha conosciuto questo mondo?
Fu durante il mio primo trekking nel 1980 che incontrai Ram Bhahadur Jhakri, un noto sciamano di etnia Tamang, vicino a Barbise, nel Nepal centro-orientale; mi era stato presentato come uno dei guaritori più potenti della zona e il suo sguardo dolce e limpido mi era subito piaciuto. Era molto disponibile e mi invitò a seguirlo in montagna. Così mi raccontò della sua vita: “Avevo nove anni quando iniziai a sentire una voce dentro di me. Un giorno la voce mi disse di spingermi nella foresta, dove incontrai una figura luminosa, tutta d’oro, che aveva tra le mani un thurmi [pugnale rituale] anch’esso d’oro. Quella notte dormii nella foresta e sognai che sarei stato un jhakri [sciamano]. Tornato a casa trovai un dhyangro [tamburo] e quando iniziai a suonarlo sentii la presenza di una Forza che mi proteggeva e mi diceva come diventare uno sciamano e curare le persone dalle malattie, dalle forze malefiche e dal malocchio”. Le sue parole e i suoi gesti mi guidarono nel mondo degli sciamani: l’unica difesa che le genti della montagna hanno per sconfiggere gli spiriti malvagi che provocano le malattie, per controllare le forze invisibili che regolano la vita e la natura e per combattere le streghe».
La mostra ci porta in quel mondo attraverso le sue fotografie di valli isolate, danze, gente che si affolla e prega intorno agli altari. Qual è il significato degli oggetti sacrificali esposti?
L’abito cerimoniale è una lunga tunica di cotone bianco che si allarga verso il fondo e che si apre a ruota durante la danza rituale. Sul petto vengono portate a tracolla numerose collane di semi, di vertebre di serpente o di piccole campane che con il loro suono accompagnano i movimenti dello sciamano e il ritmo della danza. Sul capo hanno una corona di cuoio o di cotone dove sono infilate penne di pavone e di altri uccelli e, talvolta, aculei di porcospino.
Tre sono gli strumenti rituali più importanti: un vaso di metallo chiamato bumba, il tamburo, dhyangro, e il pugnale, thurmi. La bumba è un contenitore di metallo per l’acqua con una stretta imboccatura svasata nella parte superiore e lateralmente un becco lungo e arcuato verso l’alto; serve per liberare il cammino dagli spiriti maligni. Secondo le parole di Ram Bahadur l’acqua della bumba non serve per curare gli uomini, ma è offerta a Mahadeo [il dio degli sciamani] e la sua forza è percepita dalle streghe che non ne tollerano la vicinanza.
“Il tamburo – continua il racconto di Ram Bahadur – è lo strumento più importante di un jhakri, solo suonando il dhyangro uno sciamano può chiamare Mahadeo ed esserne posseduto. Ogni jhakri dovrebbe costruire il proprio tamburo e per trovare il legno adatto deve scagliare nella foresta, con la forza del pensiero, una moneta e un chiodo legati a un filo rosso; il giorno dopo egli cercherà l’albero dove il chiodo si è conficcato e ne utilizzerà un ramo”.
Il tamburo è fatto con un anello di legno; le due facce sono coperte da pelli di capra, una è maschile e l’altra femminile e possono essere decorate con simboli colorati. Nella cornice è infilata un’unica impugnatura, intagliata con figure e decorazioni. Viene suonato percuotendo un lato con un ramoscello piegato a S e accompagnandone il suono con canti e invocazioni.
“Il thurmi – prosegue Ram Bahadur – protegge dal malocchio e serve anche al controllo del fegato. Quando un jhakri deve curare una persona assalita dalle forze malvage, egli lo strofina lungo il corpo del malato, dalla testa verso i piedi, per poi conficcarlo nella terra dove si scaricherà la malattia”. I thurmi raffigurano teste, animali, simboli e c’è una grande differenza qualitativa dell’intaglio; alcuni sono grezzi, quasi abbozzati, altri invece possono essere considerati veri capolavori dell’arte tribale: su ogni faccia si legge una diversa espressione».
Sciamani del Nepal, Renzo Freschi | Oriental Art, fino al 6 giugno
In occasione della mostra si terranno presso la Casa della Cultura, via Borgogna 3, Milano, una serie di conferenze
Foto: L’area delle preghiere, Renzo Freschi