Dal film di Moretti al romanzo di Peano lo sguardo maschile sulla morte della madre per riscrivere la relazione con il proprio principio e il sentimento della perdita
Due opere italiane con la parola “madre” che svetta nel titolo stanno riscrivendo l’Edipo. L’ultimo film di Nanni Moretti e il primo romanzo di Marco Peano: Mia madre da una parte, L’invenzione della madre dall’altra.
Col patriarcato agonizzante – quella che Massimo Recalcati chiama «l’evaporazione del padre» nel suo Complesso di Telemaco – viene indocilito il rivale originario di tutti i figli maschi. E l’amore incestuoso per la contesa donna di casa non ha più bisogno di emergere nello scontro, nel tormento nevrotico e sensuale, quanto piuttosto in un esercizio di morte, preparazione della scomparsa di una figura materna ormai tenue e fragile: una madre malata prima ancora che desiderata.
Dapprima nient’altro che escrescenza uterina, dopo tre mesi – almeno secondo i codici – l’embrione diventa corpo estraneo a sua madre, corpo cresciuto ossia feto, che aumenta in misura e diminuisce in dipendenza con una riproduzione cellulare ordinatissima.
Così la traccia inconscia della separazione dalla madre somiglia alla cicatrice di divisione tra gemelli siamesi, con il figlio maschio costretto a destreggiarsi attraverso un’ambiguità di genere alla Psycho per costruirsi un’individualità, per sopire il sortilegio che l’ha trasformato in soggetto da corpo altrui, in maschio da femmina.
Mio e non mio, identico e diverso sono progressive astrazioni non di un concetto ma di un fatto, di tanti fatti: arti che si possono e non si possono muovere, zone anatomiche osservate che non avremo mai, un calore protettivo di un corpo che tuttavia non sarà mai più la nostra tana, il nostro guscio.
E la madre diventa a poco a poco solo la causa materiale di noi stessi, allontanandosi sempre di più, come la miniera di ferro dal cucchiaino con cui giriamo il caffè. «Io sono la rugiada, il giorno, ma tu, tu sei la pianta» dice Rilke ne Le mani della madre – non a caso titolo dell’ultimo libro di Recalcati.
Si capisce perciò come la più scandalosa tra le contraddizioni sia proprio quell’ovvia sopravvivenza ai genitori, alla madre in particolare: una madre che muore vuol dire morte del principio di vita, e insieme spietata, implacabile testimonianza della propria mortalità.
«Guardatela! Eccola! Lo sapevate? Sapete chi è chiuso lì dentro? È lei, è la vita. Senza di lei nulla esiste. Senza di lei crolleranno le vostre case e si rattrappiranno i vostri corpi». Elias Canetti ripete fra sé questa frase mentre segue il feretro di sua madre lungo la strada che porta a Père Lachaise. Proprio l’episodio Morte della mamma, raccontato pressappoco alla millesima pagina, chiude il terzo e ultimo volume della sua autobiografia. Quella madre così dura che lo ha sempre guidato senza che lui se ne accorgesse, «…io ero lei, conoscevamo i pensieri l’uno dell’altro, appartenevamo a entrambi». Non può che essere lei a completare l’autobiografica sinfonia in tre tempi iniziata dall’autore con La lingua salvata, una vita come lunghissimo allestimento di questo lutto finale.
Peano e Moretti affrontano questo stesso tema con due linguaggi diversi, con due età diverse, ma con la medesima esperienza di morte. Due testimoni del paradosso energetico per cui, spenta per sempre la fonte iniziale di vita, si persiste lo stesso nel mondo, anche se privati di qualcosa: perché perfino alle soglie della vecchiaia ci si può chiamare orfani.
L’agonia della madre diventa per entrambi gli artisti lo scrigno di categorie universali: sociali in Moretti, psicanalitiche in Peano.
Moretti inscena un gioco di rimandi tra privato e collettivo: una società che è in crisi per il bisogno di un sostegno, con attori disorientati che non ricordano la parte e pellicole girate dalla Buy-regista sul destino di un’azienda in avaria. E tutto riluce nell’immagine della madre morente – Giulia Lazzarini, meravigliosa – troppo esausta per guidare figli, nipoti ed ex studenti spiegando loro la vita.
Sempre di più il regista si mette in un angolo per osservare le sue coreografie, rinunciando alle solite nevrosi e accedendo a un mondo di fantasie semi-allucinatorie attraverso la proiezione femminile che in questo film gli fa da tramite: lui sa bene che ci si fa notare di più quando si è assenti.
La ricerca di Peano invece è più linguistica: dopo poche pagine si dimentica la terza persona e si vive il racconto in un’atmosfera stravolta e ovattata di impotente attesa. La terza persona degenera nella prima: la distanza emotiva si contrae e per tutto il racconto si resta invischiati, sospesi in un limbo che non sa più nemmeno di dolore. Quando Mattia, alter ego di Peano nel romanzo, si spoglia nudo ed entra nel letto di morte di sua madre, giace con lei senza amplesso. Perché Edipo non sposa sua madre, ma vuole morire con lei: morire insieme ai suoi punti cardinali ormai in fatale collasso.
Foto: Caravaggio, Morte della vergine (particolare)
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