Incontro con una voce inconsueta della scena artistica italiana. Si firma 1/2Botta, pratica l’attribuzione come opera d’arte: il disfacimento come forma d’arte
Se si considera che nella condizione storica presente l’arte è un termine non più affrontabile come creazione dotata di valore estetico espressa nei campi della cosiddetta “cultura alta”, la figura dell’artista non è più il pittore, lo scultore, il musicista, l’architetto, lo scrittore, il regista…
Quel processo di produzione creativa che nobilitava un mestiere anziché un altro, quell’abilità tecnica innata o acquisita dalla pratica e dall’esperienza che fino a poco tempo fa sarebbero bastate a condurre la mente verso il concetto di opera d’arte, oggi hanno perduto completamente il loro significato e davanti all’osservatore rimangono gesti privi di senso. D’altronde la storia che si genera man mano con il trascorrere dei secoli produce nell’arte un nuovo livello di creazione sempre più criptico e indecifrabile, un nuovo luogo, una nuova opera di cui la critica è tenuta a squarciare il velo, il pubblico costretto a trovare le continue giustificazioni per comprenderla. Si direbbe una storia tutta in salita, da Fidia a Cattelan sotto una sottile “Linea d’ombra”, se fosse il titolo di una delle orrende esposizioni di Goldin: una storia che più si è fatta recente più si è trasformata, diventando confusa, corrotta, isterica, eppure ancora maledettamente seducente. In questa prospettiva catastrofica, mentre si sprofonda con gusto nelle torbide acque dell’arte strettamente contemporanea, andrebbe segnalato chi ancora naviga in superficie andando alla deriva senza alcuna scialuppa di salvataggio. Va segnalato Piero Mezzabotta (1977), un artista originario di Fermo ma che vive e lavora a Milano ormai da diverso tempo.
Un artista considerabile nell’accezione più nobile del termine: a fronte delle feste del consumismo contemporaneo, da cui è sistematicamente respinto, muove un sincero e totale disfacimento; il suo percorso è costellato da numerosi viaggi di formazione a partire dagli studi all’Accademia di Belle Arti di Firenze (1996), dalle sperimentazioni delle tecniche tradizionali di stampa adottate presso un tirocinio al Museo Goya di Saragozza (2001), fino alla raffinata esposizione No Lipstick allestita alla galleria londinese Bernard Jacobson (2010).
Personaggio poliedrico 1/2Botta – si firma così – è un notevole pittore in linea con il più lento e inarrestabile sfacelo figurativo messo in campo dai grandi maestri del disfacimento passato e presente: la materia pittorica è l’unica e pura realtà esistenziale, ogni palpitazione dell’essere comprensibile viene coperta, sfregiata, costretta da un magma di tinte violente e non è un caso che il suo nome sia comparso tra i “Giorni Felici” di Casa Testori del 2011.
Lo scadimento di questo bohémien milanese si manifesta come d’obbligo in ogni sua forma d’espressione: 1/2Botta difatti non è solo pittore ma anche un attento conoscitore della pittura in genere (a lui si deve il ritrovamento di una tela inedita di Osvaldo Licini intitolata Regina Pacis, un’iconografia devozionale ripresa da un affresco medievale della chiesa di Sant’Agostino di Fermo; prima ancora il recupero di un dipinto di Giovanni Boldini, verrebbe da dire quasi trovato su una bancarella e poi scoperto autografo). La grande sorpresa mezzabottiana dell’attribuzione come opera d’arte andrà però in scena qui a Milano verso la fine di Giugno grazie a un’iniziativa di cui per ora è giusto celare i nomi dei responsabili, pena anticiparne la distruzione.
Il pittore d’asini è il titolo di uno dei suoi ultimi lavori: una serie di fotografie tecnicamente invecchiate da rendere il soggetto raffigurato del pittore con l’asino un motivo ottocentesco.
1/2Botta fa parte di quelle storie che non vorremmo mai conoscere, leggere, ascoltare; è l’eterno disfacimento ancora degno di valore estetico che il grottesco sistema industriale delle arti pragmatistiche genera come figlio illegittimo. Piero 1/2Botta ci racconta il duro “mestiere di vivere” l’arte del proprio tempo, dove non è in gioco soltanto la figura dell’artista ma l’esistenza dell’arte stessa.