Nel dopoguerra il Giappone cercava un nuovo ordine delle cose: Mono-Ha, in mostra alla fondazione Mudima, trova la forza nelle cose semplici
È la prima corrente artistica che nel dopoguerra, in Giappone, riesce a sganciarsi dall’egemonia culturale occidentale e inventarsi un nuovo ordine del mondo: Mono-Ha, la scuola delle cose, in mostra alla Fondazione Mudima, si sviluppa tra la fine degli anni Sessanta e gli inizi dei Settanta per presentare le cose ordinarie, come tessuti, rocce, legno, carta, corde, vetro, acqua, in modo fuori dall’ordinario; i concetti cui sono normalmente associate vengono rimossi nel tentativo di rivelare un mondo nuovo.
C’è molta teorizzazione dietro, anche complessa, ma il risultato è di una semplicità e di una forza irresistibili. Per noi occidentali ha qualcosa dello stupore un po’ sospeso, un po’ interdetto che ci suscita lo Zen.
All’ingresso della mostra passiamo sopra delle traversine ferroviarie prese da Noboru Takayama in una miniera di carbone; non si tratta di un ready-made: l’artista le ha tagliate, trattate con creosoto e ne ha bruciato le superfici. Esposte fuori da loro contesto, così manipolate, è come se quelle traversine rinascessero, rivelando insieme la dura storia di cui sono impregnate.
O ancora, un’installazione sempre di Takayama, con una corda che pende dal soffitto e regge un asse e un sasso ovale molto levigato per terra, come fosse un contrappeso sbagliato.
Appena attraversata la passerella, ci troviamo di fronte a un massiccio pilastro portante l’alto soffitto della Galleria, che Lee Ufan ha steccato con assi di abete verticali e legato insieme con un’enorme corda. Si resta ammirati dall’accostamento dei materiali così poveri, dalla possanza della struttura del tutto illusoria, come se davvero reggesse il pilastro e l’intero salone.
E ancora, Susumu Koshimizu pone una gigantesca pietra su un foglio di carta spiegazzato, come se lo sostenesse. Siamo di nuovo spiazzati. Superficialmente l’accoppiamento giudizioso potrebbe richiamare il surrealismo o qualcosa di illusionistico, come la grande mela che occupa un’intera stanza nella Chambre d’écoute di Magritte, ma l’impiego di oggetti reali, per di più ordinari, fa emergere un mondo completamente diverso.
In fondo alla sala vediamo una grande foto Phase – Mother Earth di Nobuo Sekine con una buca cilindrica e accanto un cilindro di terra. Per capire meglio l’effetto straniante, dobbiamo immaginarlo nel contesto reale, il Suma Rikyu Park di Kobe, in cui nel 1968 venne organizzata una mostra collettiva sui temi ‘notte (luce) e scultura, vento e scultura, acqua e scultura’, insomma una simbiosi tra natura e arte, che è considerata un po’ la scintilla di partenza dei Mono-Ha.
Qui Sekine scavò una fossa cilindrica e vi accumulò accanto la terra asportata dandole una forma a sua volta cilindrica. A ispirarlo poteva essere una precoce attenzione ai movimenti dell’earth art e della land art che si stavano sviluppando in quello stesso periodo all’estero, ma non si tratta di plagio. L’effetto ottenuto è l’impressione che il cilindro di terra sia stato estratto direttamente da essa, contravvenendo alla nostra logica e proponendo appunto una nuova epifania. A rinforzare la tesi, in mostra Sekine pone davanti alla foto una scultura in marmo bianco con una grande base, un foro cilindrico e un cilindro appoggiato vicino, una specie di modellino, o meglio una copia artistica del suo fatto naturale.
Mono-Ha @ Fondazione Mudima, fino al 19 settembre 2015
Foto: Installazione di Noboru Takayama sulle finestre della Fondazione Mudima, Milano, Maggio 2015 © Foto di Fabio Mantegna