Successo al Donizetti di Bergamo per la prima di Raffa in the Sky, la “fantaopera” su Raffaella Carrà di Lamberto Curtoni, ideata da Francesco Micheli e con libretto di Alberto Mattioli e Renata Ciaravino. A dirigere Carlo Boccadoro
Che sarebbero arrivati fino in fondo era scontato, vista la forza di volontà dimostrata fin da subito, quando è stata annunciata (tra le polemiche) l’idea di una nuova opera su Raffaella Carrà per Bergamo e Brescia capitali della cultura. Che avrebbe funzionato non lo era affatto. Invece la prima assoluta di Raffa in the Sky, lo scorso 29 settembre, non è semplicemente andata liscia, ma è stato un convinto successo di pubblico – repliche ancora il 6 e l’8 ottobre, disponibile su RaiPlay.
Certamente c’era “l’evento”, per dirla alla milanese, con il Teatro Donizetti quasi esaurito, caschetti biondi che spuntavano tra le poltrone di platea e nei palchi, i “na na na na” di Rumore sul palcoscenico canticchiati sottovoce anche in sala, e molta, moltissima curiosità: sia benevola, dei tanti fan della Raffa o di chi voleva solo ascoltare la novità di un giovane compositore – che, diciamolo subito, si chiama Lamberto Curtoni ed è il vero eroe della serata –, sia malevola, di quelli che l’avevano stroncata preventivamente perché, va detto, mettere insieme opera e televisione un po’ azzardato lo è.
Ideatore di questa “fantaopera” è Francesco Micheli, direttore artistico della Fondazione Teatro Donizetti di Bergamo, che già un mese dopo la scomparsa della signora ha pensato che la Raffa nazionale potesse essere non tanto la persona, quanto il personaggio giusto per un’opera. Non un musical quindi ma, come si legge ovunque su comunicati e presentazioni, “un’opera lirica vera”. E in effetti arie, duetti, concertati, recitativi accompagnati e perfino secchi ci sono davvero.
Ovviamente mancava una fonte preesistente da cui trarre il libretto: nessun Alexandre Dumas fils di oggi ha mai pensato di melodrammatizzare la Carrà. Un po’ lo ha fatto Almodóvar – che, si sa, melodrammatizzerebbe qualsiasi cosa – in una bellissima scena di Madres Paralelas che però era solo un omaggio. Il problema è che nella biografia di Raffaella Carrà non c’è niente di scandaloso, né di teatrale. Insomma, bisognava inventarsi tutto da zero. A questo hanno pensato Alberto Mattioli e Renata Ciaravino, che hanno concepito un fantasioso libretto in versi la cui struttura deve molto all’opera barocca, con gli dèi che dal pianeta Arkadia commentano le miserie umane mentre Raffaella, dea ex machina, scende sulla Terra per riportare la felicità nel grigiore dei tempi moderni.
Nessun biopic quindi, ma due piani narrativi, uno divino e uno umano, che procedono insieme e si mescolano. Da una parte si racconta l’emancipazione della diva dagli dèi, che la controllano attraverso una ricetrasmittente nell’ombelico – divertente escamotage drammaturgico per spiegare lo scandaloso ballo del “Tuca Tuca” –, dall’altra i proletari, poi microborghesi Carmela e Vito alle prese con beghe coniugali e l’accettazione di un figlio “diverso”: gay o trans poco importa, basta che sia queer. Alla fine, la rinuncia della protagonista all’immortalità divina la porterà a un’immortalità umana troppo umana, come si coglie nella bella chiusa un po’ malinconica, sentito elogio alla profondità della leggerezza, che è poi il senso di questa operazione.
Fin dalla sinfonia è evidente l’energia della partitura di Curtoni, eclettica ma con una sua tinta coerente, un po’ alla Rota. Le canzoni di Raffaella Carrà emergono come logica conseguenza delle premesse musicali, in modo quindi mai forzato: un patchwork, sì, ma di cui si riesce a cogliere l’insieme più che le cuciture. In questo regno del postmoderno, ovviamente, le citazioni si sprecano, ma mai a sproposito: molto Lago dei cigni, un po’ di Don Giovanni, e manco a dirlo Donizetti, nume protettore della squadra. Ben pensate anche le associazioni tra personaggi e strumenti: la voce del clarinetto per la protagonista, per Apollo le sonorità del synth, che sembrano provenire non si sa se da un passato o da un futuro remoti, la grancassa per il baritono cattivo e così via. A tenere le fila di un ensemble che mette insieme Orchestra Donizetti Opera e Sentieri Selvaggi c’è Carlo Boccadoro, impeccabile anche quando deve dirigere i cantanti che scorrazzano in sala.
È forse un po’ più timido il trattamento delle voci, anche se non mancano momenti di virtuosismo operistico, specie per il soprano. Che non è la protagonista, ma Carmela, interpretata con molta convinzione e gran mestiere da Carmela Remigio. Per Raffaella si è pensato invece alla voce di una cantante pop, Chiara Dello Iacovo, aliena quindi non solo nella trama ma anche rispetto ai colleghi che le cantano intorno con voce impostata. Giustamente microfonata, Dello Iacovo è più convincente dal punto di vista scenico che vocale, ma le sue movenze alla Carrà sono perfette, si potrebbe dire filologiche. Come la tradizione da Monteverdi in poi richiede, Apollo è un tenore, qui il corretto Dave Monaco, che interpreta anche la Maestra di danza e il Parrucchiere delle dive. Ha voce di basso l’ambiguo Fidelius, che cambia identità di scena in scena come un diavoletto di Offenbach, ben interpretato da Roberto Lorenzi. Infine padre e figlio sono il bravo baritono Haris Andrianos e il mezzo Gaia Petrone, anche nella parte della Nonna che culla la piccola Carmelina sotto le bombe e dell’Ostretica che farà nascere il suo stesso personaggio.
Molto azzeccata la regia di Francesco Micheli, che non poteva che essere televisiva nello spirito, oltre che nella resa, con gli elementi scenici di Edoardo Sanchi che entrano ed escono dalla scena come in una sorta di zapping teatrale. Belli, ma soprattutto giusti i costumi di Alessio Rosati, che non sono né operistici né televisivi, ma provengono come da un altro mondo, anche quando sembrano citare esplicitamente i look Carrà o gloriosi esempi del passato (la famosa Semiramide di Pier Luigi Pizzi con i costumi architettonici). Al calar del sipario rimangono un senso di nostalgia e di tenerezza per i passaggi in cui la Carrà esce dal televisore per consolare il confuso Luca, un po’ La rosa purpurea del Cairo ma in versione “Pronto, Raffaella?”.
Perché quest’opera nuova, così audace e divertente, è in fondo anche un’opera vintage, che ci riporta alla televisione di una volta, quella dei grandi spettacoli affrontati con serietà e totale abnegazione; ma anche al ruolo sociale che ha avuto la canzone italiana, che si avrebbe la tentazione di collegare al retaggio del melodramma ottocentesco. Insomma, stiamo parlando del nazionalpopolare gramsciano, spazzato via dal berlusconismo prima e dal mainstream globale poi, e i cui tentativi di ricomposizione hanno tutta la forza dell’inattualità.
In questa prospettiva, Raffaella Carrà è in effetti il personaggio perfetto, l’ubi consistam su cui costruire un monumento a quel tubo catodico custode delle nostre illusioni perdute. C’è tutto: i lustrini, la riconciliazione finale, la trasgressione rassicurante e soprattutto il canto del cigno di un personaggio di rottura, che però andava in onda in prima serata, con molto coraggio e, tutto sommato, poco scandalo.
Al Teatro Donizetti di Bergamo Raffa in the Sky. Regia di Francesco Micheli, musica di Lamberto Curtoni, libretto di Alberto Mattioli e Renata Ciaravino. Dirige Carlo Boccadoro
Foto: Rota