La composizione elaborata da Luigi Nono fianco a fianco con Massimo Cacciari ed eseguita da Claudio Abbado nel lontano 1984 è stata re-immaginata sempre nella Chiesa di San Lorenzo a Venezia. Con questa nuova edizione, diretta da Marco Angius, complice come allora Alvise Vidolin e il suo sofisticato circuito di live electronics, la Biennale ha compiuto il gesto più coraggioso, in linea con la missione di un festival contemporaneo
Luigi Nono, nato a Venezia il 29 gennaio 1924. Cento anni esatti.
Venezia, 25, 26, 28, 29 settembre 1984: il suo Prometeo risuona per la prima volta nella chiesa di San Lorenzo trasformata dall’arca in legno di Renzo Piano in un grande violino nella cui cassa acustica il pubblico s’immerge, per due ore, nel ventre della Musica. Sul podio c’era Claudio Abbado, che ha lasciato il mondo (non la musica del mondo) il 20 gennaio 2014. Dieci anni precisi.
1984. Luigi Nono nella Chiesa di San Lorenzo durante l’allestimento del Prometeo (foto Lorenzo Cappellini / Archivio Storico della Biennale di Venezia)
Il 26, 27, 28, 29 gennaio 2024 Prometeo è tornato nella Chiesa di San Lorenzo dov’era stato pensato, progettato, plasmato. E sono quarant’anni.
Un cumulo di coincidenze riapre il libro degli ascolti e ci costringe a guardare il Tempo dritto negli occhi. Soprattutto a chiederci che cosa abbia resistito al tempo. In questo caso a prenderne coscienza una volta per sempre.
Nel groviglio di celebrazioni che coinvolgono (e non sono finite) Claudio Abbado e Luigi Nono, la Biennale Musica ha compiuto il gesto più coraggioso, in linea con la missione di un festival contemporaneo: rischiare, trovare le risorse, raccogliere i musicisti “giusti” per dare ancora vita a un evento (sì, evento) che si stacca come un altorilievo sulla scena molto affollata del nostro tempo. Ultimo e non ultimo, motivare e trovare il pubblico: in quattro esecuzioni più la prova generale aperta, quasi duemila persone hanno risposto, riempiendo le due navate simmetriche di una chiesa veneziana trasformata in tempio laico. Alla domanda se la Biennale Musica di Lucia Ronchetti abbia avuto ragione, si può rispondere da soli.
Prometeo chiede forze musicali estreme, per quantità e soprattutto qualità, perché pretende solisti. Molte versioni si sono susseguite nel tempo e in diversi luoghi, non sempre di forza e proporzioni paragonabili all’originale (già la ripresa che Scala e Biennale fecero all’Ansaldo, con l’arca scomposta e disassata per motivi di montaggio, rinunciava a qualcosa; nel Teatro Farnese di Parma la dimensione immersiva era persa). Tornata nel luogo di origine, pur senza l’arca, su avvolgenti praticabili lungo le pareti delle navate, l’edizione 2024 è riuscita a disporre nello spazio architettonico esatto gli strumenti e le voci chiamate a celebrare la “tragedia dell’ascolto” concepita da Nono, dove tragedia sta per rito originario del pensiero occidentale.
2024. Prometeo ritorna nella Chiesa di San Lorenzo diretto da Marco Angius (Foto Andrea Avezzù/ La Biennale di Venezia)
La parola cui Prometeo risale, nel lavoro di cesello compiuto da Massimo Cacciari fianco a fianco con Nono, viene infatti dalle origini della nostra cultura: sono lampi di Eschilo, Euripide, Sofocle, Erodoto, Esiodo, e Goethe, Schoenberg, Benjamin, i frammenti che le voci raccolgono come multipli haiku, mutandoli in suoni puri e antichi, in lanci ipersonici e ripiegamenti verso il silenzio. La parola decolla verso astrazioni della vocalità in dialoghi segreti ed enigmatici con il testo e la sua drammaticità.
Prometeo evoca il suono degli strumenti prima che diventi nota, organizzazione tonale, armonia. Sospinge l’orecchio e il corpo fino a stadi subliminali della percezione, in un luogo che viene prima della musica, sospeso nello spazio e nel tempo, dentro le fibre della materia.
L’edizione di Venezia è un nuovo punto di riferimento. Marco Angius dirige con sicurezza la risposta precisa, netta e circostanziata di solisti eccellenti (ci sono perfino i flauti di Roberto Fabbriciani, il basso tuba e i tromboni di Giancarlo Schiaffini, decani della prima esecuzione dell’84), del Coro del Friuli Venezia Giulia, dell’Orchestra di Padova e del Veneto.
Un sofisticato circuito di live electronics, ancora nelle mani di Alvise Vidolin, come allora, ma oggi interamente sviluppato dal Centro di Sonologia Computazionale dell’Università di Padova, prende suoni e voci in consegna e li insinua nel suo sistema arterioso, li restituisce con misurati ritardi e in calibrate manipolazioni. Un’elettronica “etica”, che non sostituisce il suono naturale ma lo dilata, lo moltiplica, ne prolunga la vita ai limiti e oltre le possibilità umane, verso l’infinito.
Un’elettronica più semplice ma altrettanto onesta già lavorava come estensione di voci e strumenti in Como una ola de fuerza y luz, brano per soprano, pianoforte, orchestra e nastro magnetico composta nel periodo ancora fortemente “politico” (1971-72) su testi tratti da un poema di Julio Huasi. La Filarmonica della Scala l’ha eseguito il 22, 24, 25 gennaio nella stagione sinfonica, perfettamente inquadrata dalla concertazione concreta e sicura di Ingo Metzmacher. Anche qui, c’è qualcosa che il tempo abbia scalfito nel pezzo che precede di poco il salto nel teatro d’impegno (Al gran sole carico d’amore, 1975)? No. Como una ola trasmette con identica coerenza e fascino (ora si può spendere anche questo concetto a proposito di Nono), un senso di profonda meditazione sulle cose del mondo (democrazia, giustizia sociale, movimenti di popolo). Profondità cui l’elettronica partecipa con un ruolo decisivo, non decorativo.
Tutto questo è avvenuto nel corso di un mese che, dal punto di vista sinfonico. ha dell’incredibile. L’11, 12 e 13 gennaio, Myung Whung Chung ha diretto a Santa Cecilia un Sacre di Stravinsky come si potrebbe ascoltare, per qualità di lettura ed esecuzione, alla Philharmonie di Berlino in serate speciali. Il 21 gennaio, Chung si è ripetuto con la Filarmonica della Scala su una Settima di Bruckner che ha fatto correre i brividi lungo la schiena di tutti, specie in quel monumentale Adagio che si dice facesse piangere perfino Hitler.
Prometeo 2024 (Foto Andrea Avezzù/ La Biennale di Venezia)
Venerdì 27 gennaio, Riccardo Muti è transitato per la Scala mettendo ancora una volta in vetrina l’orchestra prodigiosa che sta lasciando dopo 13 anni. Non c’era dubbio che su Aus Italien di Strauss e sulla Quinta di Prokof’ev la Chicago Symphony avrebbe lanciato fuoco e fiamme. L’impronta di alcuni direttori che l’hanno forgiata, Kubelik, Szell, Solti, prima dei 18 anni di Barenboim, è sempre rimasta: gli archi che suonano come gli ottoni, non viceversa. Ma gli anni di Muti hanno cambiato molto questa americanissima gerarchia funzionale e nei due bis intimamente scaligeri (l’Intermezzo della Manon Lescaut di Puccini, onore al centenario, e la Sinfonia della Giovanna d’Arco di Verdi), sono vaporate finezze di violini e violoncelli, dolcezze di cantabili, stacchi di tempi “all’italiana” con cui la portaerei di Chicago non aveva dimestichezza.
Infine, lunedì 29 gennaio, è tornato a dirigere la Filarmonica Daniel Barenboim, direttore scaligero per quasi nove anni, dal 2005 al 2014. E l’umanità, l’intensità di un musicista che l’orchestra e il pubblico amano ancora di più oggi, nel momento della fragilità, ha commosso il pubblico fino alle lacrime con una Sesta e una Settima di Beethoven che sapevano di vita vissuta, di affetti sublimati, di dolore esaltato in bellezza pura.
Se non basta, tra poco, il 3, 4 e 5 febbraio, Antonio Pappano scenderà da Londra per dirigere a Santa Cecilia un Requiem di Verdi dedicato a Claudio Abbado.
Gennaio da brividi, insomma, per dare ragione al paradosso di Barenboim, unico israeliano con passaporto palestinese, fondatore di un’orchestra dove ebrei e arabi suonano insieme: “Che cosa manca a Israele e Palestina per convivere in pace? Forse la musica”.
In copertina: Prometeo 2024 (Foto Andrea Avezzù/ La Biennale di Venezia)