Il giovane direttore d’orchestra svizzero approda al Piermarini con l’opera di Verdi ma dà prova della sua versatilità anche in versione concertistica mettendo ogni solista della Filarmonica della Scala nelle condizioni di brillare in piena sicurezza
Racchetta-bacchetta. Visto il momento, a qualcuno può saltare in mente: la musica ha i suoi Sinner? E perché no? In questi giorni alla Scala ce n’è uno che perfino gli assomiglia. Si chiama Lorenzo Viotti, 34 anni (distanza giusta tra un tennista e un direttore d’orchestra), è figlio d’arte ma s’è fatto da solo macinando musica in orchestra all’Opera di Vienna; alto, asciutto, elegante senza tirarsela (un po’ sì, ma non troppo), famiglia italo-svizzera, madrelingua straniera (francese), italiano per elezione, sintesi di talento naturale e di lavoro serio (“Non ho fretta, non voglio avere fretta”). Destino dei destini: Lorenzo Viotti è direttore musicale dell’Opera di Amsterdam, città a due passi da quella che ha consegnato a Sinner il posto n. 3 nel ranking mondiale.
Alla Scala, Viotti ha debuttato nel 2018 e ha diretto due opere francesi, Thaïs di Massenet e Roméo et Juliette di Gounod, ma nel primo giorno di questo febbraio si è infilato in uno degli incontri più rischiosi che si possano immaginare alla Scala: Simon Boccanegra di Verdi, titolo entrato nella leggenda di Claudio Abbado, rimesso in scena da Abbado Junior (il regista Daniele).
Alla domanda se sia un direttore “maturo”, Lorenzo Viotti sta rispondendo a filo di bacchetta, rifinendo recita per recita (ancora oggi e sabato), i colori verdiani di un’opera nella quale si pretende la combinazione di tinte scure e di aria di mare. Se sia anche “completo”, ha scelto di chiarirlo infilando tra la penultima e l’ultima recita tre concerti sinfonici lontanissimi non solo da Verdi: Capriccio spagnolo di Rimskij-Korsakov, Concerto per pianoforte in Sol di Maurice Ravel e Danze sinfoniche di Sergej Rachmaninov. (Ancora domani, 22 febbraio, e venerdì, 23). Per dimostrare di non avere colpi privilegiati.
Simon Boccanegra (foto Brescia e Amisano © Teatro alla Scala)
Quando alla Scala un nome nuovo tocca Verdi, di cui tutti sanno tutto, o così credono, si alzano le pretese nel chiedere un peso “storico” e, insieme, il suo contrario: un tocco di originalità che faccia dimenticare esperienza d’ascolto consumate o venerate. Nell’ambivalente risposta di pubblico e di critica del Simone, Viotti è uscito vincitore: fin dalla prima sera riconosciuto per la qualità della lettura, attenta, accurata, mai grossier, via via sempre più apprezzato per la messa a fuoco dei dettagli. Anche i cantanti, per nove decimi eccellenti, che nello spettacolo erano molto abbandonati a sé stessi, sono stati aiutati nel porgere la parola e a fondersi con l’orchestra. Il Viotti operistico combina forza e leggerezza – essere incisivi non significa essere opprimenti -, e con Simon Boccanegra si è conquistato definitivamente quell’italianità che resta sempre un mistero etimologico ma esiste, e si è aperto la strada al teatro italiano “che conta”.
Il concerto sinfonico è stata esibizione di altri colpi: sicurezza nel “tenere” tre pezzi anche sfuggenti, padronanza di forma e di stili, delicatezza nel misurare “affetti” e soprattutto colori. Nel Capriccio spagnolo op.34 c’è tutto il fuoco di un’orchestra fine Ottocento che Rimskij-Korsakov consegna all’allievo Stravinskij e che Igor farà letteralmente esplodere nella trilogia di Parigi: Uccello di fuoco, Petruska, Sacre du Printemps. Capriccio di nome e di fatto, medaglione di citazioni spagnole, di temi e danze popolari, dominate da quella Alborada che d’istinto ci porta a Maurice Ravel, anche se non esattamente a quello del Concerto in sol per pianoforte inserito al centro del programma, prima delle Danze sinfoniche di Sergej Rachmaninov.
Lorenzo Viotti (foto © Daniëlle van Coevorden)
Esaltante è Viotti nell’incendiare la scrittura di Rimskij, ammirevole nel calibrare la strumentalità meticolosa di Ravel, ma anche nel sospingere in primo piano la gershwinianità quasi plateale di questo Concerto che, non lo si dice mai abbastanza, è stato scritto quattro anni dopo la Rhapsody in Blue (il primo tempo la cita in spirito e in note). Aveva ragione Gershwin, che si è sempre sentito troppo poco “colto”, a chiedere lezioni a Ravel: sarebbe stato il maestro giusto per lui. Ma nella risposta di Maurice – “meglio essere un Gershwin di prima mano che un Ravel di seconda” -, c’era un bel po’ di invidia. E il Concerto in sol lo dimostra. (Per questo suona ancor più in bianco e nero il pianoforte del solista David Fray).
Viotti apre le ali soprattutto nelle Danze sinfoniche di Rachmaninov, mettendo ogni solista e ogni famiglia della Filarmonica della Scala nelle condizioni di brillare, in sicurezza, come nelle sere migliori. Nella dimensione più evidente c’è la precisione ritmica di un direttore che, in orchestra, stava alle percussioni; in quella più profonda e meditata, c’è l’aver capito il carattere di una pagina, l’ultima scritta da Rachmaninov, che non è affatto quel che il titolo dichiara. L’op. 45 non è un’allegra antologia di pezzi caratteristici, genere in cui Brahms e Dvorak scrissero modelli imitatissimi: di vera danza c’è soltanto il tempo di valzer, ma lo spirito del ballo è sfumato in varianti del vero e del falso, della felicità e della malinconia. Nell’arco lungo, nell’allusione alle tre età della vita, nelle non poche citazioni di carattere nostalgico e meditativo, le Danze sinfoniche op. 45 sono forse la quarta sinfonia che Rachmaninov non ebbe coraggio e tempo di scrivere. Viotti lo ha trasmesso all’orchestra e al pubblico. Con Simon Boccanegra e questo concerto sinfonico, le porte della Scala non possono che rimanergli aperte.
In copertina: Lorenzo Viotti (foto Brescia e Amisano © Teatro alla Scala)