Paolo Pierobon offre un ritratto vivido dello statista trentino. con una compagnia di livello racconta in forma di dialogo, per la penna di Angela Demattè, le paure che hanno dato forma alla storia d’Italia e d’Europa. Fino a domenica 25, regia di Carmelo Rifici
“Al freddo le cose si staccano nitide. Si conservano distinte”. Il rigore – venato di lucida supponenza – di Alcide De Gasperi, è forse allora frutto naturale dei monti trentini da cui è nato. Di cui “De Gasperi. L’Europa brucia”, in scena al Teatro Carcano, conserva la nitidezza. Una nettezza di pensiero non disposta ad accettare ambiguità, per ricostruire una società disgregata e un’Italia uscita a pezzi da una guerra perduta. Costretto a dimostrare al mondo di aver lasciato alle spalle il fascismo, ad umiliarsi pur di guadagnare, forse ai propri stessi occhi, il diritto ad essere creduto, allontanando anche da se stesso l’angoscia di un paragone con un passato ancora troppo vicino. Il senso del dovere, nutrito di un cattolicesimo radicale e aspro come le sue montagne, del De Gasperi di Pierobon, cui anche senza il trucco del cinema non viene meno la vena di magnetismo consueto, ne fa un padre vecchio stampo, di idee chiare e affetto tenero ma misurato. Un patriarca chiamato a consegnare sua figlia, come l’Italia, a quello che considera il miglior matrimonio possibile, a farne una complice e una compagna di viaggio ma anche a zittirla, quando il suo pensiero diverge da quello del genitore. Attraverso questa lente, forse, si può capire il momento – e l’uomo – che segnerà le sorti del Novecento, tra la fine della guerra e la morte dello statista democristiano, cioè tra il ’47 e il ’54.
Un tempo di colore incerto, che si guarda mutare come quello di bandiere che barriscono sotto il vento del cambiamento, dal nero al rosso al bianco, di una società che sta scegliendosi. Con toni sempre accesi, in un eccesso che forse non esplora al massimo le capacità interpretative di un gruppo di attori di grande livello, quello che va in scena è un figlio-mondo chiamato decidere se vuol essere individuo o “imparare a contaminarsi con gli altri”, che ancora non sa se camminare verso l’utopia o il capitale, se il desiderio spinge verso la libertà o il benessere.
Ma sono i padri a gridare, come ad autoimporsi una realtà senza sfumature di cui hanno bisogno. Mentre proiettano sui figli il futuro delle loro aspettative, sono forse i padri a sentirsi in pericolo, ad aver bisogno di un simbolo a cui aggrapparsi, un’illusione da ultima riga delle favole dove la lealtà dello sposo sognato cancella gli incubi del passato, che per il democristiano hanno le fattezze di una massa ancora fascista. Un disperato Palmiro Togliatti (un convincente Emiliano Masala) urla il bisogno della massa di essere ascoltata, di non svendersi per un nulla. Ma – a ben guardare – nessuno è salvo, o libero, abbastanza. Più di quanto sia idealista, ognuno a suo modo ne emerge fragile e meschino, in balia dei propri fantasmi e burattinai. Cui urla di non essere disposto a cedere ma che già ne guida i passi, come una memoria cupa che di tanto in tanto incombe sull’apparente realismo – firmato Daniele Spanò – di una scenografia che, via via, svela la sua programmatica componente immateriale, la stessa di un mondo che – sono le parole che consegna il presente – “tanto cadrà lo stesso”, in un vento di tempesta.
Così, nel corpo e nella voce di Paolo Pierobon, che sta alla scena come uno statista alla politica, De Gasperi è però soprattutto quel che non vorrebbe essere: un uomo schiacciato dalle angosce dello sposo che ha scelto per il Paese, dal terrore rosso di un’America onnipotente che esige un qualcosa in cambio dei soldi con cui ha comprato la sua lealtà. Si svelano i piedi d’argilla di un gigante, agli occhi di giovani che già in scena portano la disillusione, mentre in platea necessiterebbero di una solida formazione per capire davvero l’importanza di portare davanti ai loro occhi, in forma di prezzo pagato al sorriso mellifluo e diffidente dell’ambasciatore statunitense Dunn – un Giovanni Crippa mefistofelico – la morte di Enrico Mattei e la sua lotta contro le sette sorelle, dentro cui è la chiave per comprendere le pagine più buie della storia del Novecento italiano, dagli anni Settanta a oggi.
Si riesce però a tener saldo il filo del ragionamento, nel testo di Angela Demattè, che risolve l’arditissima sfida di rappresentare la storia d’Italia affidandola alla presenza scenica statuaria degli attori. Osservando un De Gasperi sfidato sul confine tra merito e responsabilità nella storia di cui getterà le radici, e chiamato al confronto con le loro conseguenze. Lo sguardo di ragazzi che misurano e rimpiangono quel che nelle sue scelte hanno perduto. Come Francesco Maruccia, che veste i panni di un giovane materano: nella sintesi della città dei sassi, nel guadagno in salubrità e nella perdita in verità, sta la storia d’Italia. Davanti a loro, a figli ormai rassegnati (o pacificati) ad altre strade, come la sua stessa Maria Romana, (Livia Rossi, che offre alla figlia dello statista un espressivo equilibrio) De Gasperi è solo, davanti alla consapevolezza terrificante di un sogno – l’unità europea – ormai in fiamme, che pare cadere come un aeroplano senza che ci si sappia preoccupare d’altro che del lusso dei palazzi americani dentro cui ormai abitiamo.
Cosa stiamo lasciando andare, nella strada che abbiamo scelto ascoltando padri senza dubbi, che hanno cambiato tutto? E cosa stiamo guadagnando dal provare a domandarci perché l’abbiano fatto? Di certo una consapevolezza, cui la chiarezza di questo lavoro contribuisce con la distanza del tempo, scegliendo però l’enfasi di chi ci si trovava nel mezzo. E lo è, ancora, e nelle parole della figlia – che ormai ha visto susseguirsi tante generazioni – deve chiedersi: “Chi ci dà la forza e la volontà di essere ancora europei?”
credit foto di copertina: LePera